Landini farebbe meglio a leggere il testo e non solo il titolo prima di regalare i libri

L’elogio camusiano della frenesia poco c’entra con la rivolta sociale evocata dal leader della Cgil. Eppure ha scelto proprio Camus come dono alla premier Meloni

Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, forse fiutando l’aria che tira, e non parliamo del programma di David Parenzo ma delle praterie di agibilità in un’opposizione politica spettrale ed evanescente, evoca alcuni giorni fa la “rivolta sociale”. Ne seguono comprensibili polemiche; nelle piazze già serpeggia venticello infiammato, con una sinistra radicale a braccetto coi filo-palestinesi, scontri prima a Roma e ora a Bologna, se ci si mette a evocare pure la rivolta sociale, si ragiona dalle parti di Palazzo Chigi, la china della situazione potrebbe farsi spinosa.

A questo punto, Landini svicola, zigzaga e la butta in tribuna, per usare gergo calcistico, e dice che regalerà alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni una copia del libro “L’uomo in rivolta” di Albert Camus, che avrebbe costituito riferimento della sua controversa frase. Saggio del 1951, stesso anno in cui Ernst Jünger, pensatore assai caro a molta cultura di destra e intelletto e penna raffinatissimi, nonché oppositore interno di Hitler, scriveva di un altro “ribelle”, il Waldgänger, colui che passa al bosco e che pratica una ritirata attiva nel cuore della società. Breviario, a differenza del libro di Camus, dal tono assai più operativo. Landini ha poi dato seguito al suo proposito e ha donato alla Meloni una copia del volume camusiano. Evidentemente era quindi convintissimo. Convintissimo cioè che il testo di Camus avesse qualcosa a che fare con il rinnovo dei contratti collettivi, con lo sciopero generale e con i diritti sociali, nemmeno fossimo in presenza di Susanna Camus(so).

In realtà, l’opus camusiano non ha niente a che vedere con Georges Sorel o con Filippo Corridoni, non tratteggia tecniche malapartiane di colpo di stato da declinarsi però in salsa sindacale, né a rigore parla di rabbia o di conflitto sociale: è piuttosto una riflessione su una ribellione esistenziale, profonda e intima al tempo stesso, che oppone l’individuo, non le masse o la società nel loro complesso, non siamo nel territorio scandagliato da Ortega y Gasset, a un mondo che va alla deriva annegato nella assenza di senso. Quella delineata da Camus è una forma radicale di rifiuto dello spirito dei tempi, un no opposto alla coltre di odioso e arido collettivismo. L’opera, sancendo una durissima critica al nazionalsocialismo e al tempo stesso al bolscevismo, determinò la rottura con Sartre e con l’intellighenzia francese di sinistra. D’altronde verrebbe da chiedere a Landini cosa mai di “sociale”, nel senso di diritti sociali e di rapporto lavorativo, possa trovarsi nei passi che Camus dedica a Sade, letto come un Hegel rovesciato, nel troneggiare di una signoria che irrazionalmente detta leggi funzionali a uno stoicismo del vizio. “Anche il patibolo sarebbe per me trono della voluttà” scrive Camus citando Sade, illustrando così l’anticipazione, rovesciata appunto, del paradosso hegeliano del Servo e del Padrone. Il passo lo affrontarono già Barthes, Klossowski, Bataille e Lacan, con esiti altamente problematici e nessuno ne ricavò l’impressione di un “Le 120 giornate della contrattazione collettiva”.

Se Landini sa fare di meglio in termini ermeneutici, si attende qui trepidanti. Oppure il leader della Cgil potrebbe spiegarci quale legame possa mai intercorrere tra una manifestazione di piazza di operai metalmeccanici o la legge di Bilancio o il salario minimo e l’elogio camusiano della frenesia, letta come arma di ribellione romantica, “amare nella vampa e nel grido per poi inabissarsi”. E le pagine dedicate a Lautréamont? Maldoror è stato eletto in qualche Rsu ministeriale a nostra insaputa? Oppure, quando misurandosi con il dandy, tipica figura della tradizione sindacale, Camus scrive “il dandy non può porsi se non opponendosi. Non può assicurarsi della propria esistenza se non ritrovandola nel volto degli altri. Gli altri sono specchio”. Forse Landini pensava che Camus citando il dandy si riferisse al ministro della Cultura Alessandro Giuli, a cui sono state attribuite nel corso delle settimane citazioni evoliane inventate di sana pianta mentre Gliuli snocciolava, lui sì, concetti camusiani e valéryani sulla luce meridiana del mediterraneo e sulla sua solarità.

C’è poi un dato molto noto ai lettori di Camus: lo scrittore francese fu sempre coerente cantore delle rivolte fallite, come nel dramma “I giusti”, del 1949. Non esattamente il miglior paradigma per chi sperasse di rinvenire tra quelle pagine un prontuario. Segno che a volte i libri, prima di consigliarli o regalarli, è meglio leggerli.

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