Dal fascino del disegno dal vero alle icone di Hitchcock: la magia delle locandine del maestro romano. In un libro Electa, l’innovazione e la passione dell’artista dietro il cinema dipinto
Si guardano i manifesti, si controllano gli orari, solo se avanza tempo si mangia qualcosa”. E’ il regista-cinefilo François Truffaut: non tutti i colleghi, va detto, sono altrettanto interessati al lavoro altrui. Giovanissimo si vantava di aver visto 3000 film, titoli americani trascurati dagli americani medesimi. Quindi rimprovera la fidanzata al suo fianco, che vorrebbe andare a cena e poi chissà. E’ Paolo Conte quando canta; “io son qui che aspetto il Bartali / scalpitando nei miei sandali”, e la fidanzata vorrebbe andare al cine. Figuriamoci, ci andasse da sola, lui dal ciglio strada non si muove: “al cine vacci tu”
E’ lo scrittore Italo Calvino, capofila degli scrittori italiani che hanno amato il cinema con passione esclusiva: “Ci sono stati anni in cui il cinema è stato per me il mondo”. In “Autobiografia di uno spettatore” scrive: “Già sapevo quale film davano in ogni sala, ma il mio occhio cercava i cartelloni piazzati da una parte, dove si annunciava il film del prossimo programma, perché là era la sorpresa, la promessa, l’aspettativa che m’avrebbe accompagnato nei giorni seguenti”.
I film si vedevano al cinema, prima seconda e terza visione. I manifesti erano disegnati da artisti come Anselmo Ballester, per esempio. Era nato Roma nel 1897, due anni dopo la nascita del cinema, figlio d’arte in una famiglia catalana. Il padre Federico era pittore e grafico, fu incaricato di decorare a Parigi il Padiglione italiano all’Esposizione del 1900.
Il figlio Anselmo ha disegnato centinaia e centinaia di manifesti, bozzetti, e altro materiale promozionale per il cinema in una lunga carriera durata 50 anni. E’ morto a Roma nel 1974, dopo essersi affermato come grande artista del “cinema dipinto”. Così dice il volume pubblicato da Electa, niente a che vedere con le prime pellicole in bianco e nero poi bagnate del colore – rosso passione, blu notte, verde avventura, giallo invidia – o dipinte fotogramma per fotogramma con gli stampini.
Per promuovere i film c’erano i manifesti giganti, colorati come i manifesti che promuovevano i grandi magazzini. E poco altro, per esempio le fotografie degli attori, molto posate – al primissimo posto della scala prestigiosa e artistica la ditta, a conduzione familiare, Luxardo. Secondo l’uso americano, erano autografate inviate ai fan, in cambio di un modesto obolo.
Interrogato sulla sua bravura di cartellonista per il cinema, Anselmo Ballester mette alla base le qualità che servono al pittore: “facilità nel disegno, senso del colore, immaginazione, percezione del bello”. Poi studio e osservazione, su temi che riempiono un paio di paragrafi. “Ritratti, nudi, anatomie, costumi storici, fiori animali e architetture, sempre tutto dal vero, ornati e panneggi. Poi entra i scena la fantasia – “qualora se ne possieda a sufficienza” , precisa il maestro.
Il genitore lo aveva portato con sé a Parigi, e il precoce talento aveva fatto tesoro dell’esperienza nella ville Lumière. Di un mondo nuovo, dove nel frattempo nasceva il cinema. Ricorda il cartellonista: “ho conosciuto il cinema quando avevo tre anni, e mi indicarono delle strane fotografie in movimento che apparivano su un piccolo riquadro luminoso piazzato sulla facciata di un palazzo in un boulevard di Parigi”. Era la pubblicità animata di una banca, spiccava tra i manifesti dei grandi magazzini.
Le prime immagini nel volume “Anselmo Ballester e il cinema dipinto” (Electa, curato da Stefania Babboni e Elisa Bini con materiali provenienti dal Fondo Ballester donato dalle eredi al Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma) pubblicizzano la fabbrica italiana di lampadine elettriche Helios e i grandi magazzini Coen di Roma, anno 1920. Poi è subito cinema, un bozzetto per “Nata ieri”, un altro per “Nessuna Pietà per i mariti”, e il manifesto a colori per un film intitolato “Accidenti che ragazza!”, diretto nel 1950 da Lloyd Bacon con Lucille Ball. “The Fuller Brush Girl” era ii titolo originale, con riferimento alla vendita di cosmetici porta a porta. Lavoro intrapreso dalla fanciulla protagonista con risultati disastrosi. Finché una delle sue clienti viene trovata morta. Assieme al fidanzato dovrà scappare e nello stesso tempo scovare il vero colpevole.
Più famoso il film illustrato nelle pagine successiva: “Io ti salverò” di Alfred Hitchcoch, con Gregory Peck e Ingrid Bergman. Lui ha la fobia delle righe – guai a disegnarle con la forchetta sulla tovaglia, e pure gli sci sulla neve lo fanno dar di matto – e la psicanalista Ingrid Bergman insiste: “ricorda, ricorda…”. Capelli con chignon e occhiali, come aveva deciso Hollywood per una bella ragazza che dovesse fingersi poco attraente. Poi via la crocchia, via gli occhiali, e la bellezza risplendeva. Nel film c’è la celebre sequenza del sogno disegnata da Salvador Dalì. Ma il bravo Ballester non svela tutte le carte, come certi traile di oggi. Dalì è la sorpresa per gli spettatori che già hanno pagato il biglietto.
“L’uomo nell’ombra”, nel 1953, fu il primo film a tre dimensioni della Columbia, quando queste pellicole si guardavano con gli occhialini di cartone, una lente rossa e una verde. L’horror era il terreno prediletto, anche un regista come Hitchcock tentò l’esperimento nel film “Il delitto perfetto”. Grace Kelly disperatamente cerca le forbici nel cestino da cucito dietro di lei, allungando la mano verso lo spettatore. Il manifesto di Ballester per “L’uomo nell’ombra” lancia verso lo spettatore una mano con tre dita aperte che “escono” dal fotogramma insieme al cattivo.
Baci e fiamme di passione erano già collaudate nei fumetti, come l’occhio del cattivo che sbircia la bella ignara di tutto, o la doppiogiochista. Stupenda e originale la provetta con il liquido verde – il verde, fuori dai praticelli, è sempre il colore dei mostri, sostiene lo studioso Michel Pastoureau – da cui traspare il volto di Mr Hyde dopo la pozione. Del povero commesso viaggiatore – qui nel film con Fredric March – resta solo l’ombra proiettata sulla strada.