Usiamo norme vecchie di mezzo secolo, pensate per contenere nel dopoguerra le spinte del boom edilizio. Una fase ormai conclusa, nella direzione di una rigenerazione urbana che impone un ripensamento dell’urbanistica
Se non a Milano, dove? La capitale economica è il simbolo concreto della crisi che investe l’urbanistica. La questione, all’osso. Usiamo norme vecchie di mezzo secolo, pensate per contenere nel dopoguerra le spinte dell’espansione edilizia. Quella fase – bene o male – s’è conclusa. E ha dato risposte irreversibili, come le pietre di cui è fatta. Ogni città si è “consolidata”, definendo spazi privati e spazi pubblici. Il punto cruciale sono i secondi, le quantità minima da assicurare a ogni abitante. Le regole furono stabilite nel lontano 1968. Sono gli “standard”: in un piano regolatore, ad esempio, ogni persona dovrebbe contare almeno su 18 mq. fra parcheggi, verde, etc. Oggi, 50 anni dopo, il boom edilizio è un ricordo. Il tema è cambiato, poiché le città non si espandono quasi più. I piani regolatori sono un po’ meno necessari. Gli investimenti immobiliari, per conseguenza, si confrontano con una realtà già “densa” di edificato. La loro direzione è pressoché obbligata: sostituire gli immobili esistenti con altri, più attenti alle ecomodernità (come il risparmio energetico). Nasce la rigenerazione urbana. Con due effetti ulteriori: la redditività – quindi la fattibilità – dell’intervento richiede che il volume del nuovo edificio sia maggiore di quello preesistente. In quello spazio vivranno dunque più persone: aumenta il “carico urbanistico” e l’esigenza di trovare aree per gli ulteriori parcheggi, giardini, etc. Ma gli spazi urbani sono stati consumati, per cui quelle aree scarseggiano. Il cerchio si chiude.
A Milano sinora s’è seguito un modello: preso atto che il disegno urbano è ormai oggettivamente completato (per cui non c’è più nulla, in generale, da pianificare), e che non è possibile “reperire” aree per servizi, i singoli edifici sono stati costruiti prescindendo da un piano di dettaglio e dagli standard. Non è una scelta né isolata, né priva di avalli da parte della giurisprudenza. Non tutti i giudici amministrativi e penali, però, sono concordi. La partita – è evidente – va molto oltre Milano. Si tratta di ripensare l’urbanistica del XXI secolo e le regole di governo sulla città consolidata, che è l’insieme della città privata e della città pubblica. Una soluzione s’impone, senza estremismi opposti (demolizioni brutali o sanatorie infruttuose). Alla Camera l’on. Foti, relatore della proposta di legge che dovrebbe indicare la via d’uscita, ha presentato un emendamento secondo cui quel modello Milano rappresenta – anche per il futuro – l’interpretazione autentica delle norme del 1968 sugli standard. E’ il percorso giusto? Credo che non dobbiamo ragionare come un Marcel Déat qualsiasi: la nostra Danzica – cioè la pianificazione mediante standard – non deve morire; va senz’altro adeguata, però, alle esigenze nuove delle città. Temo tuttavia che l’emendamento Foti non raggiunga l’obiettivo: scarica enormi responsabilità discrezionali sulle burocrazie comunali, alcune già molto provate dalle inchieste e pronte allo sciopero della firma; rischia comunque di esser travolto dalla Consulta, adìta su prevedibile richiesta di qualche pubblico ministero.
Ipotizzo un’alternativa: una legge realmente transitoria disegnata sul modello Milano. Evitiamo una disciplina permanente che, in quanto tale, metterebbe a repentaglio in tutta Italia il nostro sistema urbanistico, già slabbrato di suo. Proviamo invece a delineare le casistiche: distinguendo – faccio solo esempi di massima – l’edificio costruito nel piccolo cortile in palese contrasto con le norme sulle distanze, da una parte; il palazzo realizzato su area più libera, dall’altra. Lì mi parrebbe esserci una densificazione che sfugge – di regola – a recupero. Qui, l’allontanamento dagli standard e dalla pianificazione potrebbe essere recuperato allegando alla legge una tabella di dotazioni territoriali tale da azzerare o almeno ridurre in modo significativo la responsabilità degli uffici tecnici, così da rasserenarli nel rilasciare i permessi edilizi. Sentiero stretto e lungo, certo. Che mi pare però meno esposto al rischio di non condurre da nessuna parte – a causa della burocrazia difensiva, o per verosimile annullamento costituzionale – rispetto all’emendamento Foti. Un punto resti fermo, anche per il vaglio di costituzionalità: il modello non deve valere per un tempo indeterminato. Ancor meglio se il legislatore vorrà entrare realmente nella grande Storia, mettendo mano all’agognatissima nuova legge urbanistica.