Niguarda, come i treni che partono nelle stazioni

Dalle fila di sedie si alzano i chiamati, più celermente che possono. Molti sono vecchi. Tocca a loro: una visita, una Tac attesa da mesi. Efficienti, gli impiegati li indirizzano a un reparto

I tabelloni luminosi sono come quelli delle partenze e degli arrivi, nelle stazioni. Anche il tetto dell’ingresso del Padiglione Sud di questo vecchio ospedale di architettura littoria lascia vedere, nel rifacimento recente, il cielo di Milano sopra un’arcata di vetro sostenuta da supporti di acciaio. Se alzi gli occhi hai una vaga reminiscenza, la Galleria della Centrale.

Anche qui qualcuno parte. Ma non sono treni i numeri sui tabelloni luminosi, chiamati da un’impersonale voce femminile. FA205, FA106, FA108,… Dalle fila di sedie si alzano i chiamati, più celermente che possono. Molti sono vecchi. Tocca a loro: una visita, una Tac attesa da mesi. Efficienti, gli impiegati li indirizzano a un reparto. I corridoi al piano terra hanno diverse sale laterali, ma luci basse, e in fondo una parete cieca e buia. L’effetto, se già un dubbio ti turba, non è incoraggiante. L’architetto non deve averci pensato. Tutti sediamo docili e pazienti, in sala d’attesa. Altri tabelloni, altri numeri. Stazione di Niguarda, come treni che partono. Dipende da che treno è, il tuo. Agli sportelli alcuni ritirano esiti attesi con ansia. Osservo quei due, una vita insieme, che aprono la busta con dita incerte. Leggono e si guardano, non capendo la lingua dei medici. Cosa dicono? E’ una condanna o un’assoluzione?

Altri numeri sui tabelloni lampeggiano, come in un grande nodo ferroviario. Ci sono treni lieti: donne incinte, bambini caduti giocando a pallone, ragazzine con l’acne. Ci sono treni pesanti come certi merci che lenti, di notte, sferragliando transitano nelle stazioni di provincia senza fermarsi: e chi li guarda si chiede dove vanno, così carichi, senza una luce, verso quale misteriosa destinazione. Questo signore accanto a me per esempio, elegante, capelli grigi, silenzioso. Apre il verdetto. Sta per un attimo come avesse incassato un pugno. Non tocca il cellulare, non comunica la diagnosi a nessuno. Poi se ne va, solo. Fuori, con l’ora legale, è già notte, quasi d’improvviso.

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