Dalla “Coalizione sociale” alla “Rivolta sociale”, dopo dieci anni il segretario della Cgil si ripropone come guida del fronte anti-Meloni con lo stesso programma movimentista. È una strategia politica velleitaria, ma l’unica in assenza di quella di Pd e M5s
Le possibilità che nell’incontro di lunedì il governo e i sindacati trovino un accordo sono sotto lo zero. Cgil e Uil hanno indetto uno sciopero generale per il 29 novembre prima di sedersi al tavolo, mentre Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti non hanno margini di bilancio per fare ulteriori concessioni dopo che i due terzi della manovra sono stati impegnati per tagliare il cuneo fiscale ai lavoratori. Ma la partita non è finanziaria: è tutta politica.
Maurizio Landini ha già avviato un’escalation verbale incitando alla “rivolta sociale”. Dopo le polemiche il segretario generale della Cgil, durante lo sciopero dei trasporti di ieri, ha rilanciato: “Non ho nulla da rettificare, anzi rilancio con forza. C’è bisogno di una rivolta sociale perché è in discussione la libertà di esistere delle persone”. Il linguaggio, che sembra quello dei Cobas come ha scritto sul Foglio Dario Di Vico, oppure ai piqueteros argentini, infiamma una polemica con la premier che va avanti da qualche giorno. Meloni, che a causa di un’influenza ha rinviato l’incontro con i sindacati previsto per il 5 novembre, da Budapest dov’è per il Consiglio europeo, aveva risposto con una battuta sul suo stato di salute: “Sto male, ma non avendo particolari diritti sindacali sono a fare il mio lavoro”. Landini ha definito le parole della premier “un atto di bullismo”, olte che un “attacco” ai diritti sindacali, e ha annunciato che lunedì le regalerà un libro: “L’uomo in rivolta, di Albert Camus”.
Insomma, è chiaro che il sindacato è in piena campagna di mobilitazione. Siamo al quarto sciopero generale consecutivo di Cgil e Uil contro la manovra (uno contro Draghi e tre contro Meloni), un filotto che non si è visto neppure all’inizio degli anni 90, all’apice della crisi economica e politica del paese. La ricorrenza rischia di trasformare lo sciopero in uno stanco rituale, simile alle occupazioni nei licei, e pertanto per riempire le piazze, oltre alle rivendicazioni sindacali, bisogna polarizzare il dibattito per coinvolgere tutte le opposizioni politiche e sociali al governo.
È appunto la “Coalizione sociale”, teorizzata una decina di anni fa da Landini quando era segretario generale della Fiom e si diceva “pronto a occupare le fabbriche”. Eravamo in piena ondata populista, dal M5s in Italia a Podemos in Spagna, e l’idea era di un movimento alternativo alla politica tradizionale. L’effimero progetto landiniano fu un flop, ma è servito alla costruzione della sua immagine e a scalare i vertici della Cgil. Quell’idea però non è mai tramontata e ha ripreso di nuovo vigore in una fase in cui i partiti di opposizione, dal Pd al M5s, sono disorientati, senza strategia e con leadership deboli. Ora quella “coalizione sociale” di cui Landini si sente il leader naturale, è chiamata al battesimo della piazza “rivolta sociale”.
Per quanto sgangherato, dopo la disfatta del “campo largo”, la “rivolta” landiniana con il suo sbocco plebiscitario nei vari referendum – dal Jobs Act all’autonomia differenziata – è l’unico progetto in campo contro la destra meloniana. Ma è appunto un progetto politico, non sindacale. I due ruoli però, quello della politica e quello del sindacato, mal si conciliano. Anche perché, come è noto, Fratelli d’Italia è il primo partito tra gli operai e, come risulta da sondaggi commissionati dalla stessa Cgil, la maggioranza dei lavoratori ritiene che un sindacato politicizzato sia meno credibile e meno efficace sui temi del lavoro. Inoltre, l’impostazione ideologizzata può condurre a letture completamente sbagliate della realtà.
Nell’audizione al Parlamento sulla legge di Bilancio, la Cgil ha presentato una lunga lista di condizioni per poter disdire lo sciopero. L’elenco della spesa è lungo e costosissimo (contratti, sanità, servizi sociali, istruzione, ricerca, pensioni, politiche industriali…), ma la cosa sorprendente è che tra le rivendicazioni c’è anche il “blocco dei licenziamenti”. È una richiesta davvero surreale, che appartiene all’epoca della pandemia e che non ha alcun senso in questa fase. Ma la sua storia è esemplificativa degli abbagli presi dal sindacato in questi anni.
Il blocco dei licenziamenti fu introdotto dal governo Conte, su richiesta dei sindacati, per proteggere i posti di lavoro minacciati dal Covid e dai lockdown. Anche in quel contesto del tutto anormale, si trattava di un’eccezione: l’Italia è stato l’unico paese dell’Ue e dell’Ocse a introdurre una misura simile. In tutti i paesi è stato sufficiente introdurre misure di protezione economica come sussidi, garanzie e cassa integrazione straordinaria, che anche l’Italia ha dovuto necessariamente abbinare al semplice divieto di licenziamento. A metà 2021, la Commissione europea scriveva che si trattava di una misura non solo “ridondante” rispetto alla cassa integrazione, ma anche “controproducente” perché impediva la ristrutturazione delle aziende e, inoltre, non tutelava affatto i dipendenti temporanei che infatti persero il posto di lavoro. Per giunta, i dati mostravano che molti paesi come la Germania e la Francia erano riusciti a difendere meglio i posti di lavoro senza una misura tanto drastica quanto inutile.
Ma il sindacato non la pensava affatto così. Ha lottato allo strenuo contro il governo Draghi per far estendere più che ha potuto il divieto. Venne lanciata una campagna di terrorizzazione che la “rivolta sociale” è acqua fresca. La Cgil annunciava che se fosse stato tolto il blocco ci sarebbero stati “700 mila licenziamenti” da un giorno all’altro. Landini prevedeva una “rottura sociale”, mentre il suo socio in scioperi generali, il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri, la sparava ancora più grossa parlando di una “bomba sociale di 1 milione di licenziamenti”.
Non c’è stata né una rottura né una bomba. La rimozione del blocco dei licenziamenti è coincisa con una lunga fase di aumento di circa 1,5 milioni di occupati da metà 2021 a oggi. Cgil e Uil non hanno fatto alcuna riflessione sulle proprie posizioni sballate, anche perché nessuno gliene ha chiesto conto, e così ripropongono in maniera davvero singolare il blocco dei licenziamenti anche oggi. Senza peraltro considerare, come mostrano i dati del rapporto annuale dell’Inps, che ancora oggi – nonostante l’importante incremento di occupati – il numero di licenziamenti per i contratti a tempo indeterminato (507 mila nel 2023) è di gran lunga inferiore rispetto al pre-Covid (642 mila nel 2019).
La richiesta al governo di inserire il “blocco dei licenziamenti”, che naturalmente farebbe dell’Italia un caso unico al mondo (con l’eccezione forse, ma non è certo, della Corea del nord), è solo l’aspetto più surreale delle posizioni di Cgil e Uil degli ultimi anni. Landini e Bombardieri continuano a negare, a dispetto dei dati ufficiali dell’Istat, la riduzione della precarietà e il forte incremento degli ultimi anni dei posti di lavoro a tempo indeterminato. Allo stesso modo negano, a dispetto dei dati ufficiali dell’Upb e della Banca d’Italia, gli importanti effetti redistributivi del taglio del cuneo fiscale a favore dei lavoratori a medio-basso reddito.
D’altronde è solo negando la realtà che si possono proclamare quattro scioperi generali in quattro anni, durante il periodo che negli ultimi decenni è coinciso con la più grande crescita dell’occupazione stabile e il più grande taglio delle tasse a favore del lavoro dipendente. È chiaro quindi che lo sciopero generale è politico. Ma incitare alla “rivolta sociale” ignorando la realtà non è solamente una pessima strategia sindacale: è un errore politico.