La consapevolezza sempre più forte che Kyiv dovrà fare affidamento sulle sue forze, dopo la vittoria di Trump. E gli europei, qualcuno dei quali continua a fare foto ricordo con Zelensky, che cosa faranno per salvargli la faccia?
A Budapest erano riuniti i leader della Comunità politica europea, più di quaranta stati, convocati per discutere del futuro del continente, all’indomani di Trump. Il pletorico organo si era riunito per la prima volta nell’ottobre 2022, su sollecitazione di Macron, dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Gli è letteralmente passata sopra la testa lo scambio di affettuosità fra Putin e Trump: vediamoci, ci vediamo. Orbán ha fatto la ruota, Zelensky ha ribattuto, a futura memoria.
L’altro giorno Kristina Berdynskykh riferiva qua le reazioni ucraine al trionfo di Trump. “La cosa principale che accomuna tutti – concludeva – è la consapevolezza che Kyiv dovrà ora fare sempre più affidamento sulle proprie forze nella guerra contro la Russia”. Constatazione piena di onore, ma naturalmente nessuno può pensare che l’Ucraina sia in grado di sostenere con le sole proprie forze, e nemmeno con quelle residue e avaramente centellinate degli alleati, la guerra con la Russia. Si può, da chi sta dalla parte dell’Ucraina invasa e massacrata, interrogarsi sulla nuova situazione, temuta più che prevista. E riconoscere intanto che non è dai dirigenti ucraini che ci si può aspettare un discorso diverso: l’acqua alla gola non consiglia la duttilità. Chiunque abbia un’autorità in Ucraina deve temere di aprire una crepa dalla quale passi il crollo. C’è ancora un paio di mesi e poco più di Biden: può fare qualcosa prima dell’avvicendamento? Era possibile, e sarebbe stata l’altra faccia della signorilità con cui ha accettato la sconfitta e il passaggio di consegne. Ma il successo di Trump è stato troppo schiacciante per autorizzare iniziative audaci. Tanto meno sulla assicurazione e i tempi di un ingresso nella Nato, l’ultima delle cose che Trump potrebbe tollerare.
Allora? Una qualche fine della guerra in Ucraina è, fra tutte le promesse millantate da Trump, l’eventualità più a portata di mano. Senza paragone con Israele e medio oriente e Iran. Putin, con il discorso al Club Valdai, ruffianamente e oltraggiosamente confidenziale, gli ha aperto la strada. Sono ambedue capaci di tutto. (Forse Putin di più: Trump può preoccuparsi di compromettere il proprio esordio). L’Ucraina ha una forza di persuasione, o di ricatto, se si voglia dire così, ridotta al lumicino. La vanteria di Trump – chiuderò la guerra in un giorno – ha un doppio suono alle orecchie degli ucraini: per quelli stremati da due anni e mezzo di sofferenza così da agognare, che se lo dicano o no, una fine, il suono di una possibile liberazione dall’incubo; per quelli che resistono a ogni costo, e che a nessun costo vogliono tradire il sacrificio degli innumerevoli caduti, un suono lugubre di tradimento. E quel doppio sentimento può risuonare in ciascuna persona. I combattenti sono fedeli a chi li ha preceduti, i civili sono sempre più angosciati dalla chiamata che incombe sui loro cari.
A Budapest, Zelensky ha detto: “Su una fine rapida della guerra: oggi, io credo che il presidente Trump voglia una conclusione rapida. Che lo voglia, non significa che andrà a finire così. E non protestate, sto solo dicendo che siamo dove siamo. E siamo in guerra coi russi. Questo è un fatto, è il nemico più impegnativo di questo secolo… Ecco perché dobbiamo prepararci a qualsiasi decisione. Vogliamo una giusta fine della guerra. E io so che una rapida fine della guerra comporta perdite per l’Ucraina: non può essere diversamente. Forse non sappiamo o non vediamo qualcosa… C’è bisogno di un po’ di tempo”.
Qualcuno potrà contare su un gioco delle parti. Trump – ammesso che faccia star buono Mike Pompeo – dirà pubblicamente a Zelensky e agli ucraini: bisogna finirla, vi lascerò senza armi, sarà la mia responsabilità. Immaginando che Zelensky e i suoi rispondano: dobbiamo cedere alla forza maggiore, non dipende più dalla nostra volontà. Zelensky e i suoi (quelli che gli resteranno in un momento così drammatico) potrebbero anche rifiutarsi di mettere la propria firma sotto il compromesso imposto, rivendicarsi estranei, passare la mano. Hanno molti rivali, li avevano prima del 24 febbraio 2022, l’accordo tacito fu di accantonare i dissensi fino al dopoguerra. Allora il dopoguerra si figurava diverso. Possono esplodere prima, proprio riguardo all’agonia della fine della guerra – qualunque cosa sia, un cessate il fuoco, un negoziato, un congelamento… Il navigato Poroshenko si è affrettato a calcare la mano sul rifiuto di qualsiasi concessione: ha fissato ieri cinque “linee rosse” invalicabili – e ha voluto precisare che l’Ucraina non è ancora pronta per la Nato. Dall’America, Oleksey Arestovych, che è il più spregiudicato compromesso vivente, e conserva un seguito ingente (quasi due milioni su YouTube) continua a picchiare ai fianchi: ieri giurava che non un solo soldato nordcoreano si era affacciato a Kursk e tanto meno al fronte ucraino. Ha anche “rivelato” che nella lista dei nemici compilata dal sito Myrotvoretz (attribuito al servizio segreto, l’Sbu), figurava dal 2018 il nome di Donald Trump, e che è stato cancellato l’altro giorno. (Elon Musk c’era).
E gli europei, qualcuno dei quali continua a fare una foto ricordo con Zelensky, che cosa faranno per salvargli la faccia? Che cosa faranno per salvare la propria, lasciamo perdere.
L’ultimo sondaggio sostiene che nella fiducia degli ucraini Zelensky sia in testa – con una percentuale dimagritissima – seguito da Zaluzhny e, a molta distanza, da Poroshenko. Zaluzhny, che sta a Londra in silenzio, avrebbe dalla sua la reputazione intatta di militare (ma era lui a volere la mobilitazione di massa), quando le tensioni nel paese richiedessero un’influenza autorevole sul sentimento di tradimento dei combattenti.
Tranne qualche minore rotto a tutto, nessuno, per ora, vuole fare la prima mossa. Ciascuno vede di essere con l’acqua alla gola, ma vuole essere lui il derubato. Comunque vada, è fin d’ora certo che l’Ucraina aggiungerà al suo tremendo costo di vite, sentimenti e cose, la micidiale mitologia della vittoria mutilata.
L’ex ministro degli esteri Dmytro Kuleba ha avvertito i suoi connazionali che avranno un gran bisogno, un bisogno ancora più grande, di farmaci per il cuore.