Oggi la città e la sua provincia sono la perfetta fotografia della crisi di un modello virtuoso – sintesi tra capacità produttiva diffusa e creatività – che ha generato a lungo lavoro e guadagno
Ho svolto la maggior parte dell’attività lavorativa al di fuori dalla mia città d’origine, Bologna, designer consulente di brand grandi e piccoli, spesso in transito tra uffici stile e laboratori. Bologna non è però soltanto lo snodo principale di questi spostamenti, bensì una città che, pur meno rappresentativa di altre a livello di immagine, ha avuto un ruolo chiave nell’industria moda e ha ispirato la mia scelta professionale.
Oggi la città e la sua provincia sono la perfetta fotografia della crisi di un modello virtuoso – sintesi tra capacità produttiva diffusa e creatività – che ha generato a lungo lavoro e guadagno.
E parafrasando il mantra Kunst = Kapital (Arte = Capitale) dell’artista Joseph Beuys, il concetto di capitale guadagnato si traduceva anche in crescita e know how di qualità che purtroppo sono venuti meno con la scomparsa di tante aziende nel segmento alto (il polo di Centergross, quasi un’entità a sé stante, è incentrato su un prodotto made in Italy di grande diffusione).
Le ragioni di questa crisi sono diverse: il lockdown del 2020 ha falcidiato laboratori e made in Italy, e il seguente appiattimento di pubblico e privato sulla promozione del “food” (il termine inglese è più consono alla visione massificante che ne scaturisce) ha distolto del tutto l’attenzione dal settore; ma c’è in più qualcosa di profondo, e lontano nel tempo, che ha fatto sì che un distretto importante per l’abbigliamento, attraverso marchi locali o di supporto alle firme storiche del Made in Italy, abbia mancato la sfida della continuità. Il binomio di intraprendenza e talento, incarnato dallo storytelling del piccolo imprenditore con la valigia piena di meraviglie create dall’amico stilista nel laboratorio sotto casa, non ha potuto o saputo evolversi in asset solidi e innovativi, e ha cominciato a morire lentamente dall’inizio del nuovo millennio.
Era sbagliato il modello o è la nuova industria moda a essere troppo crudele e sfidante, rendendo inevitabile il sacrificio di realtà non al passo con i tempi?
Le premesse, spirito di iniziativa e tradizione culturale nel tessile, a Bologna e nella provincia che alimenta letteralmente la città, c’erano tutte, radicate nel DNA cittadino: lo slancio delle botteghe artigiane che nel XV secolo hanno dato vita all’industria della seta che, attraverso canali e fiumi (sì, Bologna è una città fluviale) ha dominato in Europa almeno fino al periodo napoleonico, è lo stesso che dal boom economico agli anni Ottanta ha determinato il successo di una parte significativa del prêt-à-porter italiano.
Vanno ricordati alcuni nomi di questo boom, scomparsi o ancora attivi ma presenti nei magazine moda più per i riassetti finanziari (e licenziamenti, vertenze legali) che per le nuove collezioni: La Perla (il primo intimo, dopo la grande sartoria di Biki, a imporsi per stile e tecnica), BVM (Les Copains, il brand autogeno, e la maglieria di Versace fra le tante), Mattioli poi ITC (la fabbrica di Gianfranco Ferré), Casor e Mizar (confezione donna di impronta sartoriale), Pancaldi (camicie di seta stampata oggi in molti archivi per la gioia dei designer della Gen Z), e ancora gli accessori o le calzature di Bruno Magli, Borbonese, Redwall, Umberto Romagnoli, agli albori del periodo d’oro, e Fusion, produttore di borse per molti – da Valentino a Louboutin – la cui chiusura ha disperso professionalità rare.
Le vere vittime di questo equilibrio spezzato infatti sono i professionisti che non hanno potuto reimpiegarsi, la qualità della manifattura e la sua trasmissione, e senza il saper fare il futuro è quantomeno incerto, se non irrecuperabile. In una sorta di tempesta perfetta, gli errori di gestione, la difficoltà a uscire da un modello familiare se non padronale nella conduzione aziendale, si sono sommati alla perdita di fiducia negli stilisti propria dei precursori, non più sodali ma pedine per strategie di corto respiro. Piccolo aneddoto: qualche anno fa mi telefonò una ex compagna di liceo, sindacalista attiva, chiedendomi lumi sullo stile di un designer che non conosceva – Rick Owens – che con una capsule doveva risollevare le sorti di un’azienda di gusto classico stremata dall’ennesima cassa integrazione straordinaria. Inviandole qualche link utile a farsi un’idea intuivo perfino io, una designer, che quella consulenza (passata senza lasciare tracce forse neppure nei ricordi dello stesso Owens) non avrebbe avuto gli effetti miracolosi prospettati dalla dirigenza al tavolo delle trattative. È fin troppo facile criticare a posteriori scelte imprenditoriali spesso complesse, ma partendo dalla constatazione del buco occupazionale che si è creato, a scapito di donne tornate silenziosamente al lavoro domestico o sommerso, e di come questo abbia interrotto la catena di artigianalità industriale su cui si fonda la moda italiana, quella di Bologna e della sua provincia è una storia che oggi andrebbe approfondita e studiata bene, per capire le ragioni di un declino e non consegnarla soltanto al mercato del vintage.