Giovani stilisti, alla prossima. Intervista a Paolo Gerani

“Non possiamo più permetterci di scommettere sulle nuove leve: l’orizzonte si è ristretto e si fanno strategie a breve” dice l’amministratore delegato di Gilmar, che negli anni ha lanciato nomi come Marc Jacobs e Giambattista Valli e che ora festeggia, con rigore, i cinquant’anni del brand di famiglia, Iceberg

Pochi giorni fa, alla Triennale che, dopo la sfilata poco convincente di settembre, ora ospita una mostra celebrativa di Fiorucci, l’amministratore delegato di Gilmar Paolo Gerani ha presentato “Iceberg. 1974-2024 Rewind – Fast Forward”, un volume in forma di scrapbook che, fra la cura di Angelo Flaccavento e i disegni e la narrazione visiva di Luca Stoppini, da sempre affezionato a questa formula editoriale, racconta la straordinaria avventura del marchio che, fra i primi, insegnò agli italiani il valore moda dello sportswear e dell’ironia. Fra le pagine compare il lavoro di Jean Charles de Castelbajac e di James Long, i due più longevi direttori creativi, e un regesto pressoché completo di campagne pubblicitarie che noi boomer ricordiamo benissimo e che ai giovanissimi potrebbero far venire qualche idea, scattate da autori come Oliviero Toscani, (che per sei anni, dal 1980 al 1986, convince anche altri stilisti, come Franco Moschino o Luciano Benetton, a posare per il rivale), ma anche Steven Meisel, Peter Lindbergh, Glen Luchford, Patrick Demarchelier, David Lachapelle. Conservo ancora da qualche parte del mio archivio personale una camicia Iceberg credo del 1984, che comprai perché era ispirata con molto spirito a un dipinto di Mondrian: le righe nere delle campiture sul mio capo erano infatti ricamate a rilievo in cordoncino, mentre un piccolo Bugs Bunny, sempre ricamato, spuntava da una spalla. Per me che ero da poco entrata all’università, quei piccoli segni di iconoclastia rappresentavano uno status, ancor prima che un simbolo. Da allora, da Iceberg mi sono sempre aspettata più o meno questo: qualità, spirito, ma soprattutto una capacità di visione che è nel suo dna ed è testimoniata dai due fondatori, Giuliana Marchini e Silvano Gerani.

Se Milano è la città dove la moda si rappresenta, la moda italiana è prodotta come si sa nei piccoli centri, e in quei conglomerati, ampi anche centinaia di chilometri quadrati, che sono i distretti. Si tratta di realtà geografiche e imprenditoriali antiche di centinaia di anni, come quello della calzetteria del mantovano, a Castel Goffredo, o del calzaturiero del Brenta, ma per la maggior parte sono molto più recenti, e risalgono agli anni del boom economico, i Cinquanta e Sessanta, che per la moda equivalgono al decennio dell’affermazione diffusa dei maglifici casalinghi. Decine di migliaia di macchine entrano nei soggiorni e nelle cucine, e in particolare in Emilia-Romagna, dando vita a una rete di piccoli imprenditori, perlopiù donne, che nei casi di maggiore successo si espande fino a diventare una grande azienda. È nata così anche l’azienda di Giuliana Marchini: la sua prima macchina per la maglieria le venne finanziata dal padre Luigi, quando aveva quindici anni, ma l’espansione arrivò col matrimonio, e la fondazione di Gilmar nel 1959, con quell’acronimo che sa di coppia imprenditoriale.

Scopritori di talenti, la signora Giuliana e Paolo Gerani, che gestisce il business da molti anni comprese attività nel wellness di lusso, in particolare il Riviera Golf Resort di san Giovanni in Marignano e quel gioiello di spazio che è la Pelota, a Milano, negli anni hanno ingaggiato nomi come Marc Jacobs, Anna Sui, Dean e Dan Caten, Giambattista Valli, Kim Jones, Arthur Arbesser, appunto James Long. Ora, però, producono, e sono soci, solo di Alessandro Dell’Acqua. La crisi della moda non consente più di investire, cioè di scommettere, su nuovi talenti; è il grande problema al quale vanno incontro le migliaia di giovani che si iscrivono alle scuole di moda nella certezza di poter lanciare il primo marchio e, in fondo, la ragione per la quale negli ultimi anni assistiamo a uno scambio di poltrone grottesco fra direttori creativi, ormai più simili a direttori di produzione, sottoposti alle leggi del mercato e ai diktat spesso ondivaghi dei direttori marketing, che a creativi dai quali ci si aspetterebbe innovazione: “Le barriere di ingresso sono diventate troppo alte”, ammette a malincuore Gerani, che sottolinea anche di essere sfuggito alla morsa debitoria che sta azzannando un’azienda dopo l’altra grazie alla riorganizzazione messa in atto nell’anno del Covid con i suoi duecentocinquanta dipendenti: “Eravamo efficaci, ma non efficienti”. Ha introdotto la settimana corta, selezionato duramente le aziende per le quali lavora, rafforzando invece il servizio: non lavora come terzista, ma come partner, partendo dalla progettazione fino al capo finito. “Ormai i business plan a cinque anni sono una cosa del passato. L’orizzonte si è ristretto a un anno”, commenta, “insieme con il ciclo di vita di una moda, di un marchio: un tempo la gaussiana era molto lunga, ora è cortissima”. I clienti sono certamente più informati, dice Gerani, ma al contempo sono sempre meno fedeli: chi ancora può permetterselo, cambia con grande rapidità. Aggiunge Gerani: “La crisi che stiamo vivendo ha molti fattori: le guerre in corso, la capacità di acquisto che è molto diminuita, la chiusura del mercato russo, le politiche cinesi sui beni di importazione. La competizione si è fatta estremamente complicata: la moda non è più una scelta prioritaria, ma credo per ragioni economiche più che di cambiamento del gusto o degli stili di vita. Il grave errore di molti marchi”, prosegue, “è di aver sbarrato l’accesso ai beni di lusso alla classe media, mentre la politica ne ha ridotto contestualmente il potere di acquisto.

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