Il destino manifesto della nazione è ormai misterioso, il privilegio americano è impallidito fino a sparire. Non c’è luce sulla collina
Al termine di una girandola da capogiro, la Grande America non si è smentita e ha emesso, con l’imbarazzante pesantezza che nel contemporaneo le appartiene, il suo verdetto: meglio Trump. Anzi: serve Trump, bisogna sospingere il suo ritorno, il nuovo avvento dell’unico che, in un panorama di professionisti della politica lontani dal paese reale, ne sappia interpretare languori, desideri, ansie e insoddisfazioni. Pochi progressi, perciò, oltreoceano: il soffitto di cristallo che non si riesce a infrangere mandando finalmente una donna alla Casa Bianca, resta intatto al suo posto, sebbene ne avesse invocato la rottura già Hillary Clinton nel 2016, appena prima di essere, a sorpresa, sconfitta da Donald.
E la stessa procedura mediatica che già allora aveva reso avvincente quella sfida, ha ribadito la propria natura di mero espediente commerciale, buono per fare ascolti e consumare il tempo dei disposti ad assistere agli interminabili talk-show su una nazione divisa, sulla grande spaccatura, la Ragione contro la Forza, in attesa di esiti misteriosi quanto una lotteria. Del resto, si pensava tra i progressisti, dov’era riuscito Biden, vecchio mestierante dotato il giusto quanto a comunicativa, stavolta poteva riuscire la sua vice, con il suo repertorio di accessori descrittivi del presente – appunto il genere, poi la macedonia razziale, i trascorsi nella Legge, la reputazione di una che, quando serviva, sapeva essere dura, perfino inflessibile. Come negare che, all’indomani della terrificante performance di Biden nel primo dibattito, quando il re è restato nudo ed è apparso lampante che mantenere alla Casa Bianca un uomo scarsamente in possesso delle proprie facoltà mentali sarebbe stato un azzardo senza senso, la scelta di Kamala sia sembrata ragionevole alla maggioranza dei simpatizzanti, perché il tempo era poco e non si trattava di una vera new entry anzi, a dispetto della sua misera interpretazione nel ruolo di vice di Biden, il personaggio-Kamala pareva in possesso di prerogative spendibili.
Già: il problema è sempre lo stesso, ovvero l’illusione che il rumore sovrasti la realtà, insomma che una candidatura strombazzata, annunciata come innovativa, ben foraggiata dagli sponsor, lanciata col contorno di scintillanti vip, potesse smuovere l’attitudine decisionale di chi avrebbe dovuto darle il voto, vuoi per sostenere l’idea progressista, vuoi solo per combattere il ritorno di Trump, comunque vincendo il dilagante scetticismo e spingendo i poco interessati ad andare votare, partecipando al rituale collettivo non sempre ben visto nelle periferie della società americana. E, di nuovo, si diceva che se ce l’aveva fatta Biden a battere Trump, allora il diavolo non è così brutto come lo si dipinge, lo si può ingabbiare, contrapponendo ai suoi sproloqui, alle sue promesse da marinaio, ai suoi slogan da bar, il dispiegare della ragionevolezza e della grinta, magari condite da un filo di seduzione. Perciò, Kamala. Tutti calcoli appesi alla più vacua virtualità.
Biden aveva vinto soprattutto perché Trump c’era appena stato, e nel suo passaggio aveva provocato disastri, il più lampante e doloroso dei quali era stata la penosa gestione del Covid, una fase della nostra vita della quale c’è una gran voglia di rimozione. Il Trump che faceva a cornate col dottor Fauci, e perdeva, aveva fatto una gran brutta impressione in parecchie case americane e perciò, tra coloro che laggiù gestiscono il proprio voto in relazione alle personalità in gioco e non al gagliardetto del partito, era sembrata una buona idea cambiare aria, affidarsi all’usato sicuro di Biden, uno fatto apposta per rimettere ordine, dopo il passaggio del creativo mascalzone. Poi però, come nel caso della peggiore malattia, è sopravvenuta la recrudescenza. Basata sul dato certo della sovrapponibilità del modello messo in vetrina da Donald Trump, e ribadito smodatamente durante la sua campagna elettorale, con il comune sentire di tanta America normale: ad esempio inscenando, giorno dopo giorno nei comizi pronunciati ai quattro angoli del paese, la campagna più razzista della storia americana, Goldwater compreso, in una rappresentazione da rabberciato vaudeville, ma con la faccia tosta di presentarsi come quello con le ragioni e le motivazioni dalla propria parte.
“Non sono razzista, ma…”, avete presente il genere? E giù una slavina d’improperi sulla contaminazione della razza perfetta, col corollario delle bestialità divenute subito meme, al punto che non c’è bisogno di riperticarle. Quel che conta è che proprio quello stesso “non sono razzista, ma…” è l’adagio che potreste sentir pronunciare a ogni piè sospinto, nel caso vi capitasse di origliare qualche discussione, chessò, nel piazzale antistante un gun show di provincia, uno di quei mercati itineranti in occasione dei quali è difficile resistere alla tentazione di concedersi l’ultimo modello di mitragliatore ultraleggero, in offerta super scontata a settecento dollari più tasse. Una palese rappresentazione di un’America ancora razzista, convinta di avere due velocità, e un formato camera-anticamera, dove collocare i legittimi e gli illegittimi. Ed è paradossale aver visto, il 5 novembre, che questo modo di definirsi e di chiamare a raccolta gli accoliti, che avrebbe dovuto scrivere la parola fine nei rapporti tra il candidato Trump e i membri di quelle stesse comunità che lui villaneggiava, vaneggiando di propositi di purificazione del sangue americano, ha sortito un effetto inatteso.
La percentuale di neri e di latini che si sono schierati dalla parte di Kamala Harris, sostenendola con il proprio voto, progressivamente si è rivelata molto inferiore a quella che nel 2020 aveva contribuito in modo decisivo al successo di Biden. E’ venuto a galla che i sentimenti deliranti e privi di empatia strillati da Trump, trovavano una corrispondenza, perfino tra schiere di immigrati ormai stabilizzati in terra americana, adesso poco disposti a controfirmare i lasciapassare per i connazionali in cerca di opportunità. Eppure Kamala non è stata capace di frenare questo riflusso esponendo, con l’impeto che serviva, gli argomenti giusti e la credibilità necessaria. Se i neri che l’hanno sostenuta sono il 20 per cento in meno di quelli che hanno votato per Biden quattro anni prima, una ragione ci dev’essere e sta nel fatto che Kamala non ha smesso d’essere percepita come un prodotto dell’istituzione governativa, il vecchio nemico originale, per chiunque abbia vissuto da clandestino o nella condizione di oscillante subalternità di chi non ha la pelle bianca in America. Di fronte a questa incapacità di incidere a fondo sull’orientamento di voto delle minoranze, la reazione della Harris è stata paradossale, esemplificata dalla sibillina virata al centro delle sue posizioni sul tema dell’immigrazione, attraverso le quali ha cercato di rivaleggiare con l’avversario riguardo ai meccanismi di scoraggiamento dei flussi clandestini e nella persecuzione dei non aventi diritto. Una Kamala così è divenuta la paladina di nessuno, incapace di riscaldare i cuori di chi non riusciva a votare Trump, mentre l’emorragia di preferenze verso il tycoon e le sue promesse di un futuro luminoso si espandeva nella modesta nazione delle propaggini.
La Grande America, sempre lei, quella dei volti nella folla, quella lontana del centro, quella che guarda la televisione e s’incazza, ascolta la radio e bestemmia quando il conduttore spiritato di turno dice che tutto è sbagliato e tutto è da rifare, l’America che prova la precisa sensazione di ritrovarsi sempre al punto di partenza, con le solite insoddisfazioni. L’America che si sente fregata, sottovalutata, condannata all’infelicità da un maligno ente, empirico e possente, che si frappone alla proprie aspirazioni. L’America che non riesce più a possedere una casa propria, a contare su forme assistenziali decenti, a pagare gli studi ai figli, l’America dei perdenti a vita, a margine della quale dilaga la marea umana dei forestieri clandestini che potrebbero accamparsi nel tuo giardinetto davanti casa. La nostalgia di Trump, il richiamo della foresta propagato dal bizzarro personaggio col ciuffo fonato e coi roboanti slogan impressi sul cappello, ha fatto il suo corso naturale: lo etichettano populismo, ma chi lo vota non pensa alle sigle, ma si limita a credere che sia meglio lui, uno che non fa la manfrina dell’“una sola nazione”, uno da ammirare perché trasuda soldi, successo e strafottenza. Trump ha strombazzato che si rivolgeva a loro ed era là per loro, americani veri di cui conosce le ubbie e le scontentezze, che sa come soddisfare. Che voleva a tutti i costi riprendere il lavoro interrotto quattro anni fa, nel frattempo avendo dimostrato che coi grandi poteri nazionali, ad esempio la Giustizia che gli si accaniva contro, o i media che lo dipingono come un mostro, alla fine vince lui perché, nonostante la cattiva reputazione, è l’unico eroe vero dell’ultima politica, uno di quelli destinati a restare, non di quelli improvvisati per ovviare alla necessità di una candidatura.
Gli americani, in maggioranza hanno scelto di credergli di nuovo. Ed è qui che Kamala ha irrimediabilmente cominciato a perdere, anzi non ha mai iniziato a vincere, perché non ha saputo scalfire il muro di sospetto nei confronti dell’establishment da lei stessa incarnato, per non parlare dello scetticismo con cui venivano accolte le sue apparizioni. Il breve tracciato della sua campagna elettorale non ha mai brillato per intensità, disseminato com’è stato di errori, gaffe, frettolose variazioni di rotta. Tutto materiale che ha convinto la Grande America a puntare su Trump, il giocatore vero, fuori dalle ipocrisie e dalle manfrine elitarie del politicamente corretto. E così è andata: sì, la nazione è divisa, ma la bilancia pende dalla parte delle vecchie maniere, piuttosto che degli esperimenti frettolosi. Col risultato della grande nebbia che ora abbiamo davanti, cercando d’intravedere cosa comporti questa scelta, quali conseguenze arriveranno fino a noi e cosa ne sarà della nazione dopo un altro giro nel frullatore-Trump. E intanto restano aperte le tematiche più interessanti sull’argomento, quelle che riguardano le metamorfosi della mente americana di fronte alla necessità di disporre di un ordine costituito. Che non smette di essere un problema irrisolto, anche adesso che siamo ben dentro il XXI secolo e si sono afflosciati gli entusiasmi novecenteschi per la nazione dal destino manifesto.
Ora quel destino è diventato misterioso quanto quello di noi tutti, il privilegio americano è impallidito fino a sparire, e tutto è stato consegnato nelle mani di un burattinaio che potrà agire fuori da qualsiasi controllo. A poche ore dal responso delle urne, c’è un’America che gode il sapore di un trionfo venato di spirito contrario, dal forte gusto anti establishment. E c’è una nazione pronta a calarsi in un quadriennio di mugugni, mentre patirà l’impotenza di uno scenario legislativo strutturato per servire i voleri del presidente. Si evocherà la democrazia malfunzionante, ma la resa delle élite al situazionismo creativo di Trump è un fatto. Donald ha vinto due volte senza rinnegarsi, anzi, amplificandosi. I connazionali lo osserveranno, tanti scuoteranno la testa, tanti approveranno, alcuni percepiranno una sensazione di spaesamento, disorientati nel tourbillon di valori che non corrispondono più alla descrizione culturale che l’America ha dato di sé. E’ probabile che, presto o tardi, una cospicua percentuale di questa moltitudine finisca per interrogarsi su cosa l’abbia condotta fin là. Vedranno i bagliori di quello smarrimento, assaporeranno l’ansia che ha sostituito il coraggio. Ma quel momento per ora è lontano. Anzi, non è nemmeno alle viste.