Il patto scellerato a Helsinki del 2018 e quella special relationship di cui non ci si può fidare. Una storia del passato per orientarsi nel futuro medio oriente trumpiano
L’ex consigliere di Donald Trump per la Sicurezza nazionale, H. R. McMaster, ha raccontato un aneddoto nel suo libro uscito l’estate scorsa, “At War With Ourselves: My Tour of Duty in the Trump White House”. Il fatto risale al febbraio del 2018, quando a Monaco, a margine della Conferenza sulla sicurezza, il generale americano trovò il modo di avvicinare Benjamin Netanyahu. Guadagnando la poltrona della sala al fianco del premier israeliano, ricorda McMaster, lo mise in guardia: “Signor primo ministro – disse – Lo sa che Putin la sta usando come specchietto per le allodole? Che la sta illudendo di potere tenere a bada gli iraniani in Siria quando invece li sta rafforzando ai confini di Israele?”. Netanyahu lo liquidò con un sorriso e gli disse che avrebbe fatto meglio a trovarsi un’altra poltrona. Una storia analoga, fatta di intese dalla dubbia efficacia concluse sottobanco con personaggi scomodi, potrebbe ripetersi nei prossimi mesi. Martedì, sul Washington Post, David Ignatius ha scritto di un accordo che Bashar el Assad e gli Stati Uniti starebbero cercando di concludere per fermare il flusso di armi iraniane a Hezbollah. Un piano ambizioso e controverso che non potrebbe non coinvolgere i russi, alleati di Assad, e che verosimilmente potrebbe affascinare anche Trump, quando inizierà il suo secondo mandato. Un esperimento diplomatico che necessiterebbe della benedizione di Assad e Putin, due interlocutori tutt’altro che affidabili come dimostra la storia degli ultimi anni.
Pochi mesi dopo l’episodio raccontato da McMaster, a Helsinki, Donald Trump e Vladimir Putin si presentarono in conferenza stampa al termine di oltre due ore di bilaterale. Era il loro primo incontro da quando Trump era salito alla Casa Bianca, e tutti si aspettavano delle spiegazioni dopo le accuse di brogli russi alle elezioni americane. Trump invece fece spallucce e minimizzò: “Credetemi, Vladimir non c’entra nulla”. Piuttosto, il presidente cambiò discorso per concentrarsi su Siria e Israele. Il convitato di pietra era Benjamin Netanyahu, che qualche giorno prima aveva incontrato Putin, al quale aveva fatto presente quale fosse la sua ossessione: le milizie iraniane alleate di Assad, Hezbollah inclusa, che si erano spinte a sud della Siria e che mettevano in pericolo la sicurezza al confine del Golan, ormai sottratto al controllo dei ribelli.
All’inizio della guerra civile, Netanyahu aveva sostenuto l’opposizione al regime, anche inviando aiuti umanitari, finché non arrivò la decisione di Trump di interrompere il sostegno americano ai ribelli. Per il presidente americano era semplicemente una perdita di tempo. Trump lamentava risultati sul campo troppo limitati e ricordava come alcuni dei miliziani addestrati dagli americani avevano disertato per unirsi allo Stato islamico e ad al Qaida. Ma per quanto paradossale potesse sembrare, l’interruzione degli aiuti americani ai ribelli aveva finito per aiutare gli stessi proxy iraniani sostenuti dai russi che ora Trump aveva promesso di arginare. Hezbollah e i pasdaran, senza trovare resistenze, si erano spinti fino a Quneitra e Daraa, affacciate sul Golan, minacciando Israele. A quel punto, Netanyahu aveva messo da parte l’illusione di sostenere un regime change in Siria e la sua priorità era diventata la difesa del confine dagli iraniani. E l’unico interlocutore con cui parlare di Siria era Vladimir Putin.
L’accordo concluso con il presidente russo, e avallato da Trump a Helsinki, prevedeva che i russi tenessero lontane le milizie iraniane dal Golan per una striscia di sicurezza di 80 chilometri e che non si opponessero ai raid chirurgici israeliani contro le postazioni iraniane. “Questo porterà la pace sulle Alture del Golan e a relazioni più pacifiche tra Siria e Israele, garantendo sicurezza allo stato ebraico”, spiegò Putin in conferenza stampa. Trump acconsentì per preservare lo status quo e aiutare Israele, ma la storia degli anni successivi, in particolare dopo il 7 ottobre, dimostra che i dubbi di McMaster erano leciti: la volontà di Putin di tenere a bada gli iraniani era stata sopravvalutata da Trump e Netanyahu. Il patto fra i tre leader nacque zoppo e gli uomini di Hezbollah non si limitarono a spingersi a ridosso del confine attaccando Israele, ma formarono delle milizie speciali, come quelle del cosiddetto Progetto Golan, armate dai russi e specializzate nella raccolta di informazioni dagli stanziamenti israeliani vicini.
Se l’intento di Trump era quello di sbarazzarsi del dossier siriano e di disimpegnarsi più facilmente dal paese, il risultato fu invece di consegnare le chiavi di Damasco a Putin. Secondo McMaster, il presidente russo manipolò Trump, abituato a fidarsi troppo della bontà delle sue special relationship con leader inaffidabili. “Putin giocava con il suo ego e con le sue insicurezze”, scrive il generale nel libro. Difficile potersi fidare ancora di lui, in Siria come altrove.