Viaggio ciclistico alle origini del Touring club

L’8 novembre del 1894, 130 anni fa, nasceva il Touring club ciclistico italiano. Una storia ultracentenaria nata a Milano e soprattutto in bicicletta

Si riunirono a Milano. Scelsero un hotel in centro. Ottennero l’Albergo degli Angioli, all’incrocio tra via San Protaso e via Santa Margherita, adiacente al Teatro alla Scala, vicinissimo al Duomo. Si contarono: erano in 57. Fondarono il Touring Club Ciclistico Italiano. Era l’8 novembre 1894. Domani, 130 anni fa.

L’assemblea era presieduta da Federico Johnson. Faceva parte di una famiglia ricca. Il padre, francese di Lione e milanese di adozione, era un industriale, bottoni in metallo (per l’esercito asburgico), borchie ornamentali per mobili, medaglie religiose, lui si specializzò in medaglie artistiche e monete, aprì laboratori e una fonderia, realizzò un salone-museo. Innamorato della bicicletta, Federico presiedeva il Veloce Club, organizzava e partecipava a gare e manifestazioni, l’ultima, nel 1893 – e aveva 40 anni – fu la Torino-Milano, conclusa “con onore”. Tra gli animatori, Luigi Vittorio Bertarelli. Anche lui milanese ma di nascita, anche lui industriale (candele e arredi sacri), anche lui sportivo (podista, alpinista, velocipedista), anche lui curioso e avventuroso (viaggiatore, esploratore, speleologo), poi autore (guide, carte, atlanti, articoli, note, fotografie). Da socio della Pro Patria (e frequentatore del Veloce Club), Bertarelli intervenne all’assemblea e contribuì allo statuto di un’associazione privata e autofinanziata, sodalizio fra ciclisti viaggiatori per incoraggiare lo sviluppo del turismo ciclistico. Il cicloturismo. E subito il primo schieramento, la prima diaspora e scissione: se l’Unione Velocipedistica Italiana (l’antenata della Federazione ciclistica italiana) avrebbe continuato a occuparsi di attività agonistica e associazioni sportive, il Touring Club Ciclistico Italiano si sarebbe interessato di tutto il resto. Ognuno per la sua strada. Fino a concepire quella sorta di arcipelago che è, oggi, il movimento ciclistico in Italia.

Quelli del Tcci andavano a ruota libera. L’appello: “Voi velocipedisti, che avete veduto nella vostra macchina (la bici, ndr) non soltanto un elemento di sport, ma ne avete fatto il vostro mezzo di trasporto preferito, avete dovuto tutti notare quante difficoltà ancora si oppongono a un uso più generale della bicicletta. Dal modo in cui le strade sono tenute a quello in cui le ferrovie vi trattano, dalla mancanza di guide e carte apposite, che vi facilitino i viaggi, alla ciclofobia che domina nei municipi e nei tribunali, avrete constatato che l’assenza d’un’organizzazione rende i viaggi spesso difficili e presenta inconvenienti gravissimi”.

La sede: a Milano in via Rovello 6, messa a disposizione dalla Milano Società Velocipedistica. Il trasloco: in due locali all’ammezzato di via Gabrio Casati 2 nel giugno 1895. Il distintivo: “il Tricolore italiano incluso in una ruota di ciclo”. Il primo evento: nel maggio 1895 la grande “passeggiata” ciclistica nazionale, la Milano-Roma, una settantina di partecipanti divisi in due categorie, guidate proprio da Johnson e da Bertarelli, distinte per età e presumibile resistenza fisica, i bagagli al seguito in treno e la regina Margherita che si recò incontro ai ciclisti, in carrozza, sulla Flaminia. E subito le iniziative: la proposta delle prime piste ciclabili, l’installazione di cassette di riparazione e pronto soccorso medico lungo le strade, l’opposizione alla tassa sui velocipedi, la collaborazione alla stesura del primo Regolamento di Polizia Stradale, perfino l’abbellimento delle stazioni ferroviarie. E nel 1897 la realizzazione e l’impianto di “speciali indicatori” stradali con l’intenzione di fornire un servizio ai viaggiatori, una segnaletica adeguata alla velocità dei mezzi, immediatamente riconoscibili e comprensibili a tutti, in posti visibili, con scritte e segni leggibili da lontano e in condizioni disagevoli, in tutto oltre 12 milioni, uno ogni 70 metri di strada.

Nel 1900, il Touring club italiano perse – almeno nel suo nome – la specificità, ma non la vocazione, ciclistica. Oggi la bicicletta in Italia sembra una straniera in patria. E una perdente, dove la legge è quella che premia il più grosso.

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