Le lettere fra Levi e il suo traduttore Heinz Riedt, carteggio quasi d’amore

E’ il primo carteggio in volume dell’autore di “Se questo è un uomo” ed è una fitta relazione epistolare che comincia nell’estate del 1959 e termina nel novembre del 1968 per un totale di centotrentadue lettere

L’Europa mi sembra tornata un covo di serpenti. Mi domando: è possibile, è decente, che questa Europa, che sento come la mia vera patria, e come la patria dell’unica vera civiltà universale, sia un permanente focolaio di incomprensioni, di tradimenti, di tirannidi?”. Lo scrive. Poi lo cancella. Poi ci ritorna, ci medita su, Primo Levi. E’ il 1961, l’anno della costruzione del Muro, l’anno più difficile per chi, come lui, credeva e aveva continuato a credere, anche nel mondo gramo e infame del Lager, a un’idea di umanità destinata a progredire.

Einaudi manda in libreria “Il carteggio con Heinz Riedt” (420 pp., 23 euro) con la curatela di Martina Mengoni, primo carteggio in volume di Levi, fitta relazione epistolare che comincia nell’estate del 1959, vale a dire un anno dopo la ripubblicazione nei Saggi di “Se questo è un uomo” nuova versione – quella che leggiamo oggi – e termina nel novembre del 1968 per un totale di dieci anni di (centotrentadue) lettere tra lui e il suo traduttore Heinz Riedt, italianista berlinese coetaneo al servizio della S. Fischer Verlag di Francoforte, editore che aveva da poco pubblicato Hannah Arendt e che gli consentì di ingranare col mestiere – tradurrà per il mercato tedesco anche “Pinocchio” e “Le avventure di Cipollino” di Rodari.

La figura di Heinz Riedt è interessantissima, romanzesca, evanescente, sempre ipotetica: le tracce biografiche sono poche, e a un certo punto si perdono. Certo le vicissitudini storiche ci hanno messo del loro, poi il divorzio dalla moglie, l’allentarsi dei contatti con Levi… Unica fonte per rabberciare la tela è “Il mondo contro” di Alberto Papuzzi che lo intervista, e un paio di curriculum discorsivi da cui si traggono dato utili seppur invincibilmente chiaroscurali: tradusse il Ruzante, venne a Milano per assistere a un adattamento teatrale e prese parte a un convegno nel 1983 a Padova. Poi più nulla, Heinz Riedt svanisce nel buio, ma ben poco si sa anche degli anni tra il 1945 e il 1959, solamente che, residente a Berlino est, fu oggetto di due indagini da parte della Stasi – il referto stabilì che “il signor Riedt sta sempre a casa a scrivere e gode di buona reputazione”. Figlio di un funzionario di stanza in Italia, conobbe Napoli e Palermo, crebbe trilingue e passò la giovinezza a Monaco di Baviera.

Levi parla di lui ne “I sommersi e i salvati”: non fu mai nazista ed ebbe il fegato di inventarsi una malattia con la complicità di un medico partigiano, si fece dichiarare rivedibile e trascorse il tempo della guerra a Padova grazie a una borsa – studiò con Gentile e Bobbio e frequentò Concetto Marchesi mentre suo suocero si trovava ad Auschwitz, proprio insieme a Levi. Ma di cosa parlano, oltre che delle molteplici questioni linguistiche che rendono questo carteggio un poderoso compendio del linguaggio del lager? Di tutto il resto: della moglie di Riedt che traduceva Dostoevskij; dei figli, della politica e del lavoro; del “Sentiero dei nidi di ragno” di Calvino (Levi glielo invia, “è un libretto sulla guerra partigiana in Liguria senza ombra di retorica”); del “ Marcovaldo” (Riedt: “Lo stile non vale niente”); di morale e scelte etiche (“Come ha potuto”, chiede Levi, “distinguere il bene dal male e fare la scelta giusta?”, e Riedt: “Più lavoro al suo libro, più mi convinco dell’identità delle nostre vedute”, allora Levi: “Anche lei ha creduto in un’Europa rinnovata e pulita. Dobbiamo vederci e parlarne…”); delle visite in Polonia e ad Auschwitz di Levi (“40.000 visitatori, una gigantesca kermesse più che un luogo di dolore”). Il traduttore racconta la paura della chiusura definitiva ai viaggi in occidente e Levi – “caro amico” – gli confessa che non ha mai odiato il popolo tedesco. Un carteggio quasi d’amore di due intellettuali.

Levi nell’estate del 1962 sta ultimando “il libro del ritorno” cui ancora non ha dato il titolo che sappiamo e intanto scrive all’amico che Zeffirelli stava considerando di portare a teatro “Se questo è un uomo”. Toccante la lettera in cui Riedt racconta l’ultimo saluto in incognito agli amici di Berlino est. “Non dimenticherò mai quel che ho visto. Una disperazione agghiacciante, la desolazione più muta: nessuno in istrada parla, nella Metro affollata non si ode parola, tutti a testa bassa, muti dal terrore, condannati a morte senza speranza. Un immenso ghetto”. Prima di fuggire, Riedt riesce a far pubblicare un capitolo di “Se questo è un uomo” sulla rivista “Sinn und Form”: quel capitolo sarà l’unica traccia del libro di Primo Levi in tutta la Germania est.

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