La recensione del libro di Marzio G. Mian edito da Gramma Feltrinelli, 320 pp., 20 euro
Più che la grandiosità geografica e fisica è tuttavia la sua portata metafisica a fare del Volga, già dal suo primo vagito nella regione tra San Pietroburgo e Mosca, il Giordano della Russia ortodossa. Ufficialmente la sua sacralità risale al 2017, quando il Patriarca di Mosca Kirill, accompagnato da Vladimir Putin, ne ha consacrato in pompa magna la fonte, equiparandola a quella battesimale delle cattedrali”, scrive Marzio G. Mian nell’introduzione al suo reportage fluviale. Già in premessa ci fa capire come la Russia non sia un gioco da tavolo per tutti, esegeti o salottieri che siano, appassionati o curiosi dell’ultima ora. E che capire e scrivere oggi di Russia sia cosa da far passare per la cruna stretta di uno studio vasto. Anche antico (ci sono ferite vive ancora oggi che risalgono alla Quarta Crociata, per dire). E, diciamolo da subito a ogni politologo very young: pre sovietico. Dopo il crollo dell’Urss, ci spiega l’inviato, l’ortodossia cristiana ha rimpiazzato il comunismo per riempire il vuoto ideologico e plasmare una nuova identità con materia antica “andando ad attingerla alla fonte battesimale”, indietro nei secoli. E cosa meglio del corso di un fiume per sancire l’alleanza con il nuovo popolo? D’altronde l’acqua del Volga è “benedetta da Dio per la salvezza dell’anima del popolo russo”, come recita un’iscrizione sulla falsariga di quella mussoliniana alla fonte del Tevere. Mian ci guida pagaiando a parole in queste acque e, per quanto possa sembrare secondario, compone un libro di viaggio.
Ogni parola ha una sua intenzione e invenzione: Passionarnost’, il termine coniato dal figlio della poetessa Achmatova per sancire la vocazione al bene collettivo. “Sadomaso”, il tema ironico del rapporto tra Russia e Stati Uniti definito da Vlad, compagno di viaggio di Mian, davanti a una fast food. Ma, d’altro canto, nessuno ha più memoria dei fatti, come la resistenza di Ržev, un sacrificio di carne umana di ottantacinque tonnellate di cadaveri, che ha salvato il mondo dall’hitlerismo e per cui Putin ha fatto erigere un monumento imponente al soldato e che fa dire alla storica russa Natalja Dranova che “il cuore è la nostra vera bomba atomica”. Su scala globale alla fine della Seconda guerra i numeri lo dicono con chiarezza: 27 milioni di vittime sovietiche contro 407 mila americane o 415 mila italiane, per dirne due. Rimane il buon senso russo quello che ha fatto dire gattopardescamente al ministro zarista Pëtr Stolypin che qui “ogni dieci anni tutto cambia e nulla cambia in duecento anni”.
Marzio G. Mian
Volga Blues. Viaggio nel cuore della Russia
Gramma Feltrinelli, 320 pp., 20 euro