Modesta proposta per uscire, almeno, dall’ipocrisia della “donazione”. Quanto può valere il noleggio, e il rischio, di un corpo? E quanto desiderio siamo disposti a rischiare? My 2 cents: meglio rinunciare
Non è un uomo abominevole quello lì? Come si lascia andare in giro gente simile? Strapparmi i due denti davanti? Ma sarei orribile; i capelli ricrescono, ma i denti!”. Così Fantine, nei Miserabili, racconta sdegnata a Margherita, una sua vicina, la proposta appena ricevuta dal cavadenti che l’aveva vista sorridere, così piena di vita. Così povera ma bella. I due denti davanti per due Napoleoni. Un Napoleone a dente, insomma, per un corrispettivo di quaranta franchi. Per una come Fantine, avrebbe detto Mike Bongiorno, “una bella sommetta”. Certo, è difficile dire quanto valga davvero un dente, e forse potremmo risolvere la questione rimettendoci alla saggezza veterotestamentaria, per la quale un dente vale un dente, proprio come un occhio vale un occhio: molti, del resto, hanno male interpretato queste parole come un incitamento alla vendetta, mentre, al contrario, si tratta di un invito (certo un po’ brusco) a una riparazione che non travalichi mai l’equità.
Ma se non si sa quanto valga di preciso un dente, perché un Napoleone non vale un sorriso, ancora più difficile credo sia stabilire quanto valga l’uso temporaneo di un organo in una gestazione per altri, se proprio vogliamo attenerci alle parole di Crisanti e fingere di credere che abbia cognizione di ciò di cui parla. Secondo Crisanti, infatti, la Gpa altro non sarebbe che “una donazione d’organo temporanea e reversibile”, dove il problema del valsente, per così dire, non viene neanche preso in considerazione, ma letteralmente rimosso nell’ipocrisia della “donazione”. Per lo stesso principio di equità della riparazione, è altresì evidente che la legge appena approvata, che fa della Gpa un “reato universale”, al pari insomma della tortura o del genocidio, tradisce una sperequazione fra danno e risarcimento su cui qualcuno chiederà lumi alla Corte Costituzionale.
Quel che qui occorre invece rilevare, una volta di più, è che la destra non si è fatta sfuggire l’occasione di prendere un corno del dilemma per farne clava da sbattere in testa al primo che passa: dove i primi a passarmi per la testa sono quei bambini, nati con la Gpa, che da oggi portano sulla fronte lo stigma terribile di essere figli di un “reato universale”. Al solito, nell’orrore di una politica che si risparmia ogni volta la fatica del confronto, quel grano rilevante di dubbio che investe pienamente l’eticità della Gpa si è fatto valanga, e ha finito per ricoprire tutto. E tuttavia, sotto questa coltre, quel grano di dubbio rimane intatto, in tutta la sua consistenza adamantina. Pensando alla povera Fantine, infatti, è vero che la lingua batte sempre dove il dente duole: è ridicolo sostenere, come fa Crisanti, con una approssimazione tecnico-scientifica imbarazzante, che la Gpa riguardi “un organo”. La Gpa, al contrario, riguarda il corpo della gestante nella sua interezza, ed è, nella quasi totalità dei casi, non certo una donazione, ma, piuttosto, il noleggio delle funzioni vitali di un corpo femminile per quasi un anno, in cambio di un corrispettivo in denaro che impone rigide norme contrattuali.
Se comunque la questione è stabilire con precisione quanto valga un dente, che certo non ricresce, o l’uso soltanto temporaneo per conto terzi di quella che la scemenza pseudoinclusiva definisce “persona con utero”, una complicazione ulteriore deriva dal fatto che sarebbe meglio stabilire il prezzo da pagare, prima di esprimersi con qualche su argomenti che toccano i nervi più suscettibili di ciascuno di noi. Argomenti che riguardano, in buona sostanza, la questione fondamentale del desiderio e dei limiti che poniamo alla sua soddisfazione.
Perché gli esseri umani vanno a desiderio come i mulini vanno a vento. Proprio per questo, prima di parlare con disinvoltura del valore del sorriso di Fantine, è meglio che la lingua batta davvero dove il dente duole: chi scrive, tocca dirlo, è parte in causa di una coppia che si è fatta una specie di tardivo interrail in mezza Europa. Lei, con la pancia livida, a gonfiarsi di ormoni, lui (cioè io) a masturbarsi negli sgabuzzini disperanti degli ospedali, dall’Austria alla Spagna, passando per l’ospedale della Versilia, con l’unico risultato di aprire ogni volta la busta delle analisi del sangue, lentamente, come un giocatore di poker che stilla le carte in un all-in, per non trovarci dentro nulla, a parte un’infinita desolazione. Tocca sapere anche che, chi scrive, è parte in causa di una coppia che ricevette a suo tempo l’offerta, rarissima e di valore incommensurabile, di una Gpa altruistica. Dalla migliore delle amiche, certo. Ma, soprattutto da una donna che, volendo, invece di sacrificarsi nove mesi per noi, avrebbe potuto benissimo scegliere di andarsene nove mesi in vacanza ai Caraibi pagando di tasca sua.
E tuttavia, considerando quell’offerta più unica che rara, dopo averne parlato e riparlato, con la lingua che batteva dove il dente ci faceva di male in peggio, stabilimmo alla fine che il nostro desiderio non valeva un solo rischio che non fosse solo ed esclusivamente nostro. Pensammo, cioè, che il limite del nostro desiderio doveva essere la salute della nostra amica: perché va sempre tutto bene, si sa, tranne quella volta in cui va tutto male. Ecco perché, infatti, per una Gpa solitamente si paga, e si sottoscrive anche un’assicurazione: le cose possono andare per il verso sbagliato, per la madre gestante, che ci mette anima e corpo, e per i committenti, che ci mettono embrione e quattrini, in un rapporto di forza per cui la maggior tutela spetta a chi paga. Ecco dunque che si torna alla questione: se esista un equo compenso per chi realizza, per conto terzi, un desiderio con cui moltissimi, prima o poi, devono fare i conti.
Ed è da questo punto di vista che conviene allora riconsiderare la questione. Il cuore della questione sta infatti a monte delle aule parlamentari e della supremazia del diritto, e riguarda la consistenza degli investimenti: o meglio, la sperequazione fra l’investimento emotivo e quello economico, entrambi però legati a doppio filo in questa pratica. Non essendo il mio mestiere quello del legislatore, mi permetto di avanzare, a chi si interroghi sulla Gpa, due modeste proposte che, come ogni altra modest proposal non hanno alcuna pretesa di essere efficaci, contentandosi di restare lì, come uno spillo nascosto nel materasso sul quale la ragione dorme i suoi sonnellini. La prima, quella che di gran lunga mi sento di caldeggiare con maggiore trasporto, è quella di lasciar perdere. Dimenticarsi la Gpa, qualunque legge sia in vigore. Un padre mancato, quale io sono, potrà piuttosto elaborare il lutto nel testamento, ricordandosi en passant che testamento è, come testimonianza, generato nel latino testes, testicoli: così, ad esempio, io lascerò la mia biblioteca a uno dei figli di quella nostra amica generosa.
Ma, a parte queste piccole divagazioni, ho pensato soprattutto, e con sollievo, che se si sono estinti i Safavidi di Persia, i Capetingi e i Valois di Francia, i Medici di Firenze, allora potranno ben estinguersi anche i Lenzi del quartiere stazione di Livorno, il mondo andrà avanti lo stesso. La seconda modest proposal riguarda invece la sempre più remota possibilità che, un domani, coloro che adesso siedono in Parlamento sui banchi dell’opposizione si ritrovino maggioranza di governo, con la questione spinosa della Gpa per le mani. E mentre aboliscono il comma che ne fa un reato universale, si trovino a dover decidere quale sia l’esatto punto di caduta dell’asticella che si pone al limite del desiderio in una qualunque civiltà, anche in quella che aspiri ad essere la più libertaria possibile. La mia modest proposal allora è che, dal momento in cui la sinistra ritiene possibile fissare il salario minimo a 9 euro l’ora, per un importo pari cioè al 75 per cento di quello mediano, nell’ambizione ideale che la giustizia sociale abbia la meglio sulla realtà delle cose come sono, applichi un criterio analogo, nelle intenzioni, alla regolamentazione della Gpa.
Ammettendo dunque che si possa dare un valore alla prestazione di servizio di Fantine che non sia stabilito soltanto dal mercato ma anche da un’aspirazione di giustizia sociale, potrebbe essere accettabile, per la sinistra, cercare di bilanciare meglio un investimento emotivo tanto grande da accettare che Fantine corra vicariamente rischi e disagi al posto della committenza, con quello economico. Si potrebbe fissare cioè un floor price universale, tale da liberare Crisanti dall’ipocrisia degli eufemismi, e punendo chi invece approfitta, in giro per il mondo, di soluzioni più a buon mercato. Quale sia il floor price, anche solo di un dente, lo abbiamo visto, è complicato; ma non troverei sbagliato fissarlo, per la gestante, ad almeno 336.500 euro: è questo il risarcimento che pagano le assicurazioni ai genitori per la perdita di un figlio. Algebricamente, così, il figlio sarebbe perso per la gestante ma guadagnato a entrambi i componenti della coppia committente. Si può dibattere sulla cifra, certo.
Si possono trovare parametri migliori. Quello del risarcimento assicurativo mi appare abbastanza vicino alla traduzione monetaria della saggezza del taglione. Una sinistra alla quale importasse ancora dei bisogni di chi si scosta poco dal basamento della piramide di Maslow, oltre che dei desideri di coloro che possono permettersi di volare oltreoceano per realizzarli, potrebbe forse trovare in questa modest proposal una soluzione accettabile per tenere insieme almeno alcune delle sensibilità separate in casa in quella stessa ala del Parlamento. Mi è chiaro altresì che, in questo modo, l’accesso alla Gpa resterebbe appannaggio dei più ricchi fra i ricchi, ma trovo comunque più imbarazzante il fatto che una eccessiva democratizzazione del processo finisca per sbatterci in faccia la verità per cui chi ha pane non ha denti e chi ha denti, come Fantine, dopo nove mesi di rischi e disagi, non abbia neanche i soldi per comprarsi almeno il panificio.
Questa seconda modest proposal però, e sono il primo ad ammetterlo, mi convince meno. E non tanto perché impraticabile, come sarà inapplicabile l’inutile inasprimento sanzionatorio votato dalla destra. Mi convince meno perché, anche innalzando l’investimento economico a un livello equiparabile a quello emotivo, ho la sensazione che il peso immateriale dell’investimento complessivo finirà col gravare inevitabilmente su chi è stato generato in un desiderio che parla troppo di chi desidera e poco o nulla di chi è desiderato. E se dunque non sono questi i miei 336.500 euro, siano allora, come si dice, my 2 cents.
Ben prima della legge, allora, e fuori dalle aule parlamentari, ognuno farebbe bene ad avere già fissato l’asticella sul limite che consente al proprio desiderio. Il mio, per quel che vale, si è fermato davanti al sorriso di Fantine, e presso le tombe delle casate estinte di Saint Denis, o, infine, sulla soglia della casa dove sono nato. Da lì traguarda ancora il tempo che resta con l’orologio che mi regalò mio padre e che un giorno smetterà di battermi al polso. E poiché quel desiderio mi riguardava davvero, la sua incompiutezza mi accompagna ancora senza l’ombra di un rimpianto.