Rispetto agli anni Ottanta si legge di più. Il problema è “cosa” leggiamo

La vera notizia è che si legge malissimo: dove prima c’era Calvino ora c’è il Principe Harry, dove c’era L’insostenibile leggerezza dell’essere c’è La portalettere, dove c’era Gesualdo Bufalino ora c’è Dammi mille baci

In occasione della Fiera del libro di Francoforte, ove l’Italia si trovava, dopo 36 anni, come ospite d’onore, il giornale dell’Associazione italiana degli editori ha preso la non so quanto perfida, ma sicuramente meritoria, iniziativa di affiancare la classifica dei libri più venduti nel corso del 1988 con quella del 2023. Il risultato che ne viene fuori è, per dirla con Crozza che imita Antonio Conte, agghiacciante. E tuttavia per nulla sorprendente per chi ogni tanto si addentra in una libreria. Per una volta si può dire che quella classifica rappresenta una “fotografia” (espressione oscena ma adeguata all’oscenità del risultato) dello stato culturale di un paese. Che si leggesse pochissimo lo sapevamo, non è una notizia, si è sempre letto pochissimo, ma poi la verità è che oggi si legge più di ieri – non si tratta di un problema di quantità. La vera notizia è che si legge malissimo. Dove prima c’era Calvino ora c’è il Principe Harry, dove c’era L’insostenibile leggerezza dell’essere c’è La portalettere, dove c’era Gesualdo Bufalino ora c’è Dammi mille baci, dove c’era Michail Gorbacev ora c’è il Generalissimo Vannacci, dove c’era Le memorie di Adriano ora c’è Due cuori in affitto, dove c’era Herman Hesse ora c’è Pera Toons. E la riflessione potrebbe anche concludersi qui.

Chi scrive ha esitato molto prima di vergare questo pezzo perché vorrebbe tenersi lontano da ogni moralismo, o facile morale dozzinale, che si ritrova spesso proprio nei libri che detesta e che intasano le librerie di ridicoli sentimentalismi, di cuori e capanne, di sguardi alti come il cielo e di pensieri profondi come il mare, di empatia per tutti e di tripudi di autocelebrazioni vittimarie, di dolori certi e di speranze presunte, di rassicurazioni mediocri e di piagnistei facili, di soccorrevoli racconti edificanti e di terrificanti saggi antioccidentali, di neoluddismo e di antimodernismo lesso.

Chi scrive, nonostante di mestiere si sia scelto l’appassionante, snobistico e tutt’altro che ricco mestiere di editore, non è un grandissimo sponsor della lettura. Di solito c’è molto di meglio da fare che leggere: c’è infatti da vivere. La lettura inoltre richiede delle doti naturali (lo dico senza enfasi): una certa dose di pigrizia, di misantropia, di capacità di pensiero astratto. Leggere un libro all’anno, o anche due, o anche tre, in realtà è praticamente come non leggere. Inoltre, se uno legge così poco significa anche che legge lentamente e con difficoltà. Si tratta, quindi, di tempo perso. Meglio trascorrerlo, come si diceva prima, a vivere. Per non parlare del fatto che chi legge poco pensa di apprendere davvero qualcosa dalle poche pagine che legge, ritenendo così di sapere qualcosa, quando invece il vero lettore, il malato di lettura, quello che ha un rapporto di necessità con il libro, sa che ogni libro non è altro che un frattale, un vortice dentro cui si sprofonda aprendo non già gli abissi della sapienza ma quelli dell’assoluta ignoranza. L’unica vera rivelazione che si può avere leggendo – leggendo molto, ma molto davvero – è che non si sa nulla di nulla se non si è letto praticamente tutto; per poi magari scoprire, a quel punto, che non vi era nulla da sapere e che proprio quella è Sapienza.

Leggere per il compassato piacere estetico di tenere un libro in mano, o di sentire parole d’altri scorrere nella propria mente illudendosi che siano le proprie, è stato un passatempo “borghese” ma che si sta sostanzialmente estinguendo insieme alla borghesia. Tuttavia non si può non notare, leggendo l’elenco 1988/2023, la straordinaria perdita di gusto dei lettori. La mancanza di eleganza nelle domande che si pongono ai libri (leggere un libro non è altro che un porre domande), la mancanza di gusto nell’accettare le risposte che si riceve. Tutto si tiene, e rimane intrappolato tra lo zucchero del sentimento e la tenaglia rintronante dell’intrattenimento, tra l’emotivismo riflessivo e un grossolano buddismo da viaggio, tra gli eterni insopportabili gialli, con i loro commissari che grondano filosofia da bancone, e la storia del mondo raccontata ai ragazzi. Ma questo non è né un lamento, né una preghiera, è solo una misera fotografia!

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