Nella cornice culturale dell’evento romano prende vita l’inedita trasposizione teatrale di “Altri libertini”. Le nuove generazioni riscoprono con curiosità il talento ribollente dell’autore emiliano, destinato ad approdare sul grande schermo grazie a Luca Guadagnino
Prima di tutto un sentito omaggio per ciò che il Romaeuropa Festival sta facendo per la vituperata vita culturale della Capitale, ridotta al lumicino, svilita, impoverita, bistrattata da orrori vari, e invece illuminata nei mesi autunnali dal poderoso programma di questo evento, capace di restituire alla città una temporanea e purtroppo effimera dimensione continentale, muovendosi tra spazi diversi e generi espressivi, attivando una proposta continua di novità, visioni e provocazioni sufficienti a ridare fiato a un’asfittica atmosfera creativa contemporanea. Tra le tante cose viste in queste settimane, ha destato importante interesse di pubblico e un vivace passaparola la presentazione dell’inedita trasposizione teatrale dell’opera prima di Pier Vittorio Tondelli, il romanzo-montaggio (sei racconti in una voce unica) “Altri libertini” che, all’inizio degli anni Ottanta, destò al tempo stesso scandalo, riprovazione ed entusiasmi. E alla questione-Tondelli nei nostri profondi anni Duemila va dedicata una riflessione: è infatti notevole il fenomeno di riemersione che riguarda di questi tempi non solo l’opera, ma perfino la schiva figura pubblica dell’autore, sottoposto a una riscoperta curiosa e amorevole in primo luogo da parte delle nuove generazioni, con la complicità della recente ripubblicazione della sua intera bibliografia.
Tondelli riaffiora, portando con sé una descrizione pazzescamente sentimentale (sul metro del presente) ma anche vivida e intensissima di un decennio, quello degli Ottanta del Novecento, che scopriamo lontano e diverso, ma al tempo stesso connesso con l’oggi, inteso come fase germinale, venata d’ingenuità, segnata dai lividi di quello che allora era un doloroso passato recente, per non parlare delle ferite che ne avrebbero cosparso il corso. Eppure quell’Italia – contrariamente all’archeologia sessantottina, alle intemerate pasoliniane, alla feroce militanza dei Settanta – adesso siamo ancora in grado di riconoscerla e quindi di specchiarci in essa, per com’era imperfetta, irregolare, piena di voglie, desideri e progetti, al tempo stesso minata da pericolose infezioni, come l’Aids, le droghe e il diffondersi di un’avidità consumistica fino allora imbrigliata dai conformismi cattolici e dall’impegno. Adesso sentiamo che tutto ciò è andato avanti, si è evoluto, modificato e corrotto, e allora i ragazzi di oggi, se vogliono risalire a un inizio, ci mettono poco a imbattersi in Tondelli e nelle sue cronache appassionate, nelle sue esplorazioni prive di inibizioni e nella sua capacità di trasformare in storie le traiettorie e le figure di tipi loro coetanei di quarant’anni fa, sgangherati, perversi, fragili e vitali.
Ecco allora che un regista capace di sentire la direzione dei venti come Luca Guadagnino annuncia l’intenzione di portare sul grande schermo “Camere separate”, il romanzo finale di Tondelli, il più sofferto, sofferente e profondo, ma anche il più maturo e cadenzato, cosa che ne lascia prevedere un possibile trasferimento in materia cinematografica (non pare certo che il film si farà, e sarebbe un peccato, perché una relazione Tondelli-Guadagnino possiede i crismi di una produzione italiana immersa in una rinfrancante letterarietà). E, appunto, al Vascello di Roma è appena andata in scena per il Ref, lo spericolato tentativo di fare teatro a partire dalle pagine sovraccariche e turbolente di “Altri libertini”, il libretto nel quale un Pier Vittorio poco più che ventenne scaricò il suo talento ribollente, le sue ansie provinciali e l’intuizione che certe cose mai dette, eppure serpeggianti, non solo andavano scritte, ma si poteva restituire loro dignità, a dispetto che avessero a che fare con trasgressioni, deviazioni, peccati e sconfitte. Adattata e diretta dalla regista pugliese Licia Lanera e interpretata con vigore da Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva, Roberto Magnani e dalla stessa Lanera, la versione teatrale di “Altri libertini” rappresenta un esordio sul palcoscenico della scrittura di Tondelli (si ricorda solo una lettura teatrale di “Dinner Party” promossa da Piero Maccarinelli) e anche una sfida difficilissima, perché in quel suo irruento debutto l’autore trabocca di parole, intenzioni, citazioni e voglia di rappresentare.
Lo spettacolo prova a contenere questo marasma affidandosi ai virtuosismi verbali degli interpreti, a qualche coevo astuto intermezzo musicale – Vasco Rossi e Skiantos – e provando ad attualizzare il tutto intrecciandolo con note biografiche del cast, che non aggiungono granché alla rappresentazione. Un tentativo volenteroso e riuscito a metà, perché non riesce a spingersi “oltre” Tondelli, collocandolo finalmente in quella mistica da cui pare d’improvviso avvolto. Ma comunque un segnale interessante del dispiegarsi di una nuova classicità della nostra letteratura, che sposta i termini, ha bisogno d’includere un complicato sovvertitore di codici come Pier Vittorio e infine offre a chi, per motivi anagrafici, cominci adesso a costruirsi una personale educazione, un accesso diverso a un autore che non ha mai voluto essere un simbolo, ma che suo malgrado, proprio come capita ai simboli, comincia a essere investito da una potente ondata di necessità.