La filosofa ebrea segue i protagonisti vedendo nel poema della guerra non il semplice orrore della catastrofe, ma la potenza e la necessità del conflitto con cui tutti gli uomini, in tutte le epoche, hanno dovuto confrontarsi
L’Iliade è stata definita in molti modi: il poema della forza, il poema della forma, uno dei pilastri della nostra civiltà. Tuttavia, ciò che vi è di più sicuro, è che al centro della sua epica si trova la guerra: da essa tutto deriva, in essa tutto termina, e ricomincia. “La guerra, la si fa, la si subisce, la si maledice o la si celebra; come il destino, non la si giudica”. Simone Weil ha notoriamente dedicato all’Iliade un famoso scritto definendola, appunto, il poema della forza. Ma forse ancora più penetrante nella sua intensa e, allo stesso tempo, eterea qualità letteraria, intessuta di esistenzialismo novecentesco, è la lettura che ne dà un’altra filosofa ebrea, molto meno conosciuta e massimamente cosmopolita, Rachel Bespaloff.
Il suo saggio breve ed evocativo, “Sull’Iliade” (Adelphi), racchiude, nella rapsodica ricostruzione dell’opera, quell’atmosfera di malinconia, di fine certa, che avvolge tutti i protagonisti del poema. Infatti, solo nell’agon, nel momento del puro atto dello scontro si mostra la differenza tra gli eroi; quando poi, invece, le armi tacciono, tutte le differenze sono smussate. Tutti i vincitori, così come tutti i vinti, si somigliano. Tutti sono, o saranno, per la morte, in cammino verso l’Ade. Tutti questi eroi piangono lacrime virili: per loro stessi, per ciò che è perduto, per ciò che non potrà più essere, o che sarà presto sparito.
La scrittura di Bespaloff segue i protagonisti della vicenda, Achille ed Ettore sopra gli altri, con lo sguardo di chi vive immersa nell’angoscia della propria epoca (il libro è del 1943), e vede nel poema della guerra non il semplice, ovvio, orrore della catastrofe ma la potenza della necessità del conflitto con cui tutti gli uomini, in tutte le epoche, hanno dovuto confrontarsi. “Gli eroi omerici non sono né guerrafondai né pacifisti. Sono la violenza, e chi patisce la violenza”. E allo stesso tempo sono l’espressione della perfetta provvisorietà dell’esistenza, all’interno di un gioco della necessità che appare sempre onnipervadente e inavvicinabile, e che pure costituisce il tessuto stesso di quelle esistenze individuali.
Al lato opposto dello spettro ritratto da Bespaloff stanno gli dèi, “condannati a essere perennemente al sicuro, senza intrighi e senza guerre morirebbero di noia”. Una “beata spensieratezza”, quella degli Immortali, che appare come una sorta di peccato, “l’unico che Omero condanni o stigmatizzi esplicitamente”.
Achille non è certo il più umano degli eroi (quel ruolo è di Ettore), ma il più divino tra gli umani: “iracondo, frenetico, sempre ebbro di azione o di noia”. Lui è la violenza che muove il mondo, che la impone e, allo stesso tempo, la subisce nella morte che lo attende, nella perdita di tutti quelli che ama, o nell’impossibilità di rivederli: Patroclo, il figlio, il padre. E’ lui che irrompe, è lui la forza dirompente che compie il proprio destino di devastazione e di morte certa, ma che così facendo fa avanzare la storia (anche stando fermo, in preda all’ira, nella sua tenda). “Senza Achille, l’umanità vivrebbe in pace. Senza Achille, l’umanità si rattrappirebbe, si addormenterebbe congelata dalla noia”. Egli è la forza che “si conosce e gode di sé solo nell’abuso in cui abusa di se stessa, nell’eccesso in cui si dissipa […] Condannare o assolvere la forza equivarrebbe a condannare o assolvere la vita stessa”.
La forza è fatta per manifestarsi, anzi, la forza è la propria stessa manifestazione. E questo destino è un destino di violenza, che si può anche rifiutare ma non senza esserne schiacciati, un destino che va assunto e accettato, con le ovvie diversità, epoca dopo epoca; a meno che non si decida di lasciare che il luogo della realtà sia occupato da un’allucinazione fantasiosa. “La guerra stessa è la via che conduce all’unità nel gigantesco divenire che crea, disintegra, ricrea i mondi, le anime e gli dèi. Alla vita che divora essa restituisce un’importanza suprema”.