Il nuovo Patto di Stabilità e i conti (europei) che ancora non tornano

Dopo la pandemia, il Patto di stabilità, che vincola le finanze pubbliche dei paesi membri dell’area dell’euro, è tornato in vigore, con alcune modifiche che cambiano molto poco. La questione Germania resta attuale: Berlino potrebbe (e dovrebbe) allentare le sue politiche restrittive

Dopo la sospensione decisa all’inizio della pandemia, il Patto di stabilità, che vincola le finanze pubbliche dei paesi membri dell’area dell’euro, è tornato in vigore, con alcune modifiche. L’aspetto più sorprendente, e deludente per alcuni commentatori, è che in realtà non c’è molta differenza rispetto alla situazione precedente. In particolare, i paesi che hanno un debito pubblico elevato, come l’Italia, devono continuare a mettere in atto politiche di risanamento, anche se spalmate su un periodo più lungo, condizionate all’attuazione di riforme strutturali. Un altro aspetto del nuovo regime che, contrariamente alle aspettative, non è cambiato, riguarda l’incentivo a effettuare correzioni di bilancio proprio quando l’economia è in fase di rallentamento.

I paesi che registrano un disavanzo pubblico superiore al 3 per cento del prodotto interno lordo, come l’Italia o la Francia, dovranno ridurlo nei prossimi anni, nonostante il rallentamento previsto dell’attività economica. Eppure, l’intenzione della riforma era proprio quella di correggere la distorsione prociclica del sistema precedente, che spingeva i governi a mettere in atto misure restrittive quando l’economia rallentava ed espansive quando invece l’attività economica migliorava.

L’errore, in realtà, non risiede nelle regole europee, vecchie o nuove, come alcuni avevano segnalato a suo tempo, ma piuttosto nel modo in cui i governi mettono concretamente in atto le loro manovre di bilancio, soprattutto in prossimità delle scadenze elettorali. Gli stimoli fiscali tendono spesso a essere mantenuti ben oltre il necessario, nella speranza di ottenerne un vantaggio politico, e vengono ritirati troppo tardi, quando diventano insostenibili. Lo stop and go della politica di bilancio non aiuta così a stimolare la crescita in modo duraturo e fa solo aumentare il debito, che è poi molto costoso da ridurre.

L’esperienza italiana è piena di esempi al riguardo. A cominciare dagli incentivi fiscali per le ristrutturazioni edilizie (come il Superbonus 110 per cento) o i sussidi ai consumi energetici, che sono stati prorogati ben oltre l’uscita dal Covid ed eliminati troppo tardi, quando l’attività economica stava già rallentando.

Un’altra speranza vanificata è quella di avere regole più trasparenti. In teoria, il nuovo sistema comporta impegni pluriennali, soprattutto per quel che riguarda la dinamica della spesa pubblica, ma non vengono rivelate appieno le misure che dovrebbero consentire nei prossimi anni di rispettare gli obiettivi. In altre parole, prosegue la tendenza ad adottare misure una tantum.


Infine, le nuove regole rimangono sostanzialmente asimmetriche, ossia creano vincoli solo per i paesi ad alto disavanzo e debito pubblico, ma non vi è nessuna raccomandazione per quelli a basso debito, che dispongono di spazio fiscale e potrebbero mettere in atto politiche espansive per contrastare la recessione. Il caso palese è quello della Germania. La regola costituzionale tedesca impone il rispetto del pareggio di bilancio nell’arco del ciclo economico. Tuttavia, l’interpretazione eccessivamente legalistica data dall’attuale governo tedesco porta al risultato paradossale di un bilancio pubblico fortemente restrittivo nel bel mezzo di una recessione e di una ristrutturazione industriale. Il saldo di bilancio tedesco è previsto raggiungere l’equilibrio nel 2026, rispetto a un passivo dell’1,4 per cento quest’anno. Il debito pubblico tedesco dovrebbe scendere tra due anni al 61 per cento del prodotto lordo, dal 63 per cento del 2024.

Tale restrizione rallenta l’intera area dell’euro, dato il peso predominante dell’economia tedesca. La soluzione a tale asimmetria non è evidente, e rimane un vulnus nel governo dell’economia europea. Pensare di emettere più debito pubblico a livello europeo, per finanziare politiche comuni, in particolare nel campo della difesa, della transizione ambientale e dell’innovazione, come proposto da molti, appare velleitario in assenza di trasferimenti di sovranità in questi settori, dal livello nazionale a quello europeo, a cui si oppongono gli stati membri.

Per fare pressione sul governo tedesco, al fine di allentare l’eccessivo rigore finanziario, sarebbe possibile ricorrere alla procedura europea sugli squilibri macroeconomici eccessivi oppure condizionare gli aiuti di stato richiesti a favore delle imprese tedesche all’attuazione di politiche macroeconomiche meno restrittive in Germania. In passato la Commissione europea e gli altri stati membri non hanno mai osato seguire questa strada. L’esperienza dello scorso decennio dovrebbe tuttavia insegnare che se non si ha un po’ di coraggio per procedere in questa direzione l’economia europea rischia di tornare in una fase prolungata di stagnazione.



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