È una delle rare serie senza sosia, cioè che non cerca la somiglianza fisica a tutti i costi con i personaggi “realmente esistiti”: i due attori molto bravi, Elia Nuzzolo e Matteo Oscar Giuggioli che interpretano Max Pezzali e Mauro Repetto
Ci sono molti motivi per cui tutti noi boomer e non boomer siamo pazzi della serie sugli 883 (intitolata “Hanno ucciso l’uomo ragno”, dalla immortale ballata, in onda su Sky). Intanto c’è l’effetto nostalgia che fa dimenticare le cose brutte e ricordare solo quelle belle: ah, il walkman! Ah, il Deltone rosso! Ah, l’Atari! Ah, soprattutto, che pacchia la vita senza social e Internet. E poi, licei classici di provincia, noia e nebbie lombarde, canzoni di quegli anni lì anche non degli 883.
Insomma il solito modulo Vanzina che funziona sempre e ci trascina in territori inaspettati: chi mai ci avrebbe detto che ci saremmo divertiti con un biopic su Max Pezzali. E la prossima volta su quale storia ci appassioneremo? L’infanzia di Paola e Chiara? Le peripezie di Raf? Il coming of age di Mango? Siamo ufficialmente rincoglioniti? Però qui i pregi sono tanti: intanto è una delle rare serie senza sosia, cioè che non cerca la somiglianza fisica a tutti i costi con i personaggi “realmente esistiti”; e i due attori molto bravi, Elia Nuzzolo e Matteo Oscar Giuggioli che interpretano Max Pezzali e Mauro Repetto, sono solo vagamente somiglianti, non si cerca il tragico effetto-Bagaglino a suon di cerone. Ci sono poi dei comprimari “realmente esistiti” e non bagaglinizzati: c’è un giovane Fiorello coinquilino dei Nostri nel famoso appartamento milanese offerto dalla factory di Radio Deejay dove allignavano le future star (incerto se buttarsi in uno strambo programma canterino dal titolo giapponese); c’è Maria De Filippi, giovane avvocatessa pavese che riceve enormi mazzi di rose da un misterioso ammiratore romano – indovina chi – e il giovane Pezzali glieli recapita, garzone com’è alla bottega di fiori dei genitori.
C’è Edoardo Ferrario che fa “Pierpa” Peroni, leggendario produttore musicale, e uno dei primi romani a farcela a Milano (mica come oggi, che a Milano i romani sono i nuovi pugliesi). Poi, la serie diretta da Sidney Sibilia (“Smetto quando voglio”, “L’incredibile storia dell’Isola delle Rose”, “Mixed by Erry”), è ben scritta (da Sibilia, con Francesco Agostini, Chiara Laudani e Giorgio Nerone) e ben recitata, e non ci sono, come spesso nelle pellicole italiane, mettiamo, due amici torinesi in un film ambientato a Torino che parlano uno con accento calabrese e l’altro romano; qui non parlano neanche in doppiaggese ma dicono battute perfino plausibili per l’epoca. Inoltre è un “basato su fatti veri” che per una volta non racconta di massacri, stupri, uccisioni multiple. Se il bel “Monsters” in onda su Netflix narra di micidiali serial killer che sterminano la famiglia, anche lì su hit molto nostalgiche, ma pone però anche questioni etiche – è giusto mettere in scena assassini così ganzi, palestrati, ben vestiti e pettinati? – qui in scena va la placida provincia italiana anzi lombarda: posto da cui scappare e da cui siamo scappati tutti per poi riappacificarci. Senza compiere stragi.
E forse questa lombarditudine spiega anche il perché finora Pavia, dov’è ambientata la storia, non abbia protestato. La città delle “due discoteche 106 farmacie”, come cantano gli 883 nella melodia immortale, è vituperata e presa in giro, seppur affettuosamente, tutto il tempo (“il Ticino è una merda”, ecc.). ma finora non ci sono state reazioni diciamo così istituzionali. Forse i lombardi sono troppo presi a fatturare per guardare serie tv o per lamentarsene, ma non c’è stato diciamo l’effetto-Avetrana; quello per cui la Disney ha dovuto cambiare il titolo della sua serie da “Avetrana. Qui non è Hollywood” al semplice “Qui non è Hollywood” (forse anche perchè il sindaco di Pavia, Michele Lissia, alla guida di una civica tendenza centrosinistra, è un appassionato di rock). L’unico che si è arrabbiato a oggi è Claudio Cecchetto, il grande talent scout che scoprì anche gli 883 e che ha vecchi dissapori con Pezzali, e stavolta però forse ha ragione ad arrabbiarsi, dipinto com’è come un rincoglionito mitomane. Infine, ultimo merito, la serie è ambientata in una qualunque città industriale, non in una montagna patriarcale stile Vermiglio, non nel Sud irredimibbbile (con tre b), non nell’Umbria dei “borghi più belli d’Italia” con tanti preti-commissari in bicicletta. Non ci sono intellettuali in crisi né delitti né call center, non è “necessaria” né vuole agitare coscienze; ritrae gente normale che fa lavori normali. Ma forse il merito più grande è aver colmato un mistero italiano che dopo l’oro di Dongo e il caso Ustica ci attanagliava: abbiamo capito anche cosa facesse Mauro Repetto, il “biondo” del duo. Non si dimenava solamente sul palco. Anzi.