Il mancato endorsement a Harris da parte del Washington Post ha causato critiche e dimissioni, portando molti lettori a disdire l’abbonamento. Ma potrebbe segnare la fine (o almeno una tregua) dell’acceso dissidio tra il fondatore di Amazon e il candidato repubblicano
L’ha detto bene Brian Stelter nella sua newsletter per la Cnn: “Solitamente gli endorsement presidenziali dei giornali non hanno molta importanza”. Se il Washington Post, il giornale di proprietà del multimiliardario di Amazon Jeff Bezos, avesse fatto il suo solito pezzo di appoggio ai democratici chiamando in causa il buon senso, nessuno ci avrebbe fatto attenzione. L’endorsement dei giornali, dice al Foglio Ben Smith, fondatore di Semafor ed esperto di media, “è una reliquia del secolo scorso. E se il Washington Post avesse detto otto mesi fa che non sceglieva nessun candidato, non ci sarebbe stato alcun clamore. Farlo una settimana prima delle elezioni, be’, è chiaro che non si tratta di una decisione politica proprio ben ponderata”. Una scelta l’hanno fatto più o meno tutti – appoggiando in maggioranza la candidata democratica Kamala Harris – ma la decisione di restare neutrali da parte del WaPo ha portato molti a disdire l’abbonamento, compreso Stephen King, alle dimissioni di un autore come Robert Kagan, e pure le critiche del duo che ha dato lustro massimo al quotidiano, Bob Woodward e Carl Bernstein. L’“obbedienza anticipata” di Bezos – come l’hanno definita molti – in vista di un possibile secondo mandato del repubblicano Donald Trump avrebbe a che fare con le commesse pubbliche dell’azienda spaziale Blue Origin, cui Bezos dedica molte energie. “Sono certo che Trump apprezza questa scelta”, ci dice Smith. “E poi non so perché Bezos l’abbia fatto, ma è chiaro che la percezione generale sia quella di un favore fatto a Trump”.
Il dissidio tra Bezos e Trump dura da tempo. Nel 2013 Bezos comprò il Washington Post per 250 milioni. Poco dopo Trump iniziò la sua carriera politica e il giornale non fu mai troppo morbido con lui, tanto che il tycoon twittatore disse che era un semplice contenitore di fake news –“il Washington Post non è altro che un costoso (il giornale perde ogni giorno una fortuna) lobbista per Amazon”. Fece una vera campagna Twitter contro la mega azienda di shopping online, anche per un accordo che aveva fatto con la posta americana. Trump per un periodo è stato ossessionato dal miliardario di Seattle, e aveva promesso che l’avrebbe fatta pagare ad Amazon quando sarebbe diventato presidente.
Durante il mandato presidenziale di Trump, quando una commessa da 10 miliardi per un progetto di cloud-computing del dipartimento della Difesa era stata vinta dal rivale Microsoft, Bezos aveva fatto causa dicendo che la sua azienda non aveva vinto per antipatie da parte di Trump, e il dipartimento aveva dovuto bloccare tutto. Bezos in questa situazione aveva mostrato una tenacia che aveva del personale, che andava oltre il business. La rivalità tra i due è continuata per anni. Per esempio, il Washington Post negli ultimi anni ha creato una pagina aggiornata con le oltre trentamila bugie dette pubblicamente da Trump. “E’ guerra aperta”, avrebbe detto Trump a un certo punto a un suo collaboratore. Poi c’è stato l’affair del ricatto del National Enquirer. Il tabloid di proprietà di David Pecker, amico di Trump, aveva messo le mani su foto e messaggi compromettenti di Bezos sulla storia d’amore clandestina con la giornalista Lauren Sánchez, ora sua partner. L’Enquirer chiedeva, per non divulgare informazioni, di smetterla di prendersela con il fratello di Pecker. Bezos, invece di cedere al ricatto, aveva rivelato tutto, arrivando al divorzio. Trump lo aveva preso in giro chiamandolo “Jeff Bozo”, un nome da clown. Il mancato endorsement a Harris potrebbe essere la fine di questa faida, o almeno una tregua.