Una Tintoria loquace e quella nostalgia per la vecchia tv

Tinti e Rapone mettono su uno spettacolo che ricalca il modello delle conversazioni televisive più antiche e piacevoli. Una sfida alla soglia dell’attenzione sempre più ridotta, anteponendo la soddisfazione nell’imparare qualcosa a quella nel vedere il wrestling in studio. Il podio degli ospiti migliori

Tra le cose che mi mancano, della televisione di una volta, ci sono i comici, come ha spiegato Andrea Minuz qualche settimana fa (La tv s’è mangiata i comici, Il Foglio, 19 ottobre 2024), anche se a rivederli me li ricordavo più divertenti. Ma mi mancano soprattutto le conversazioni: non il “Maurizio Costanzo Show”, che era già, appunto, show, caciara, ammucchiata, “Grande Fratello” in embrione, ma le conversazioni a forma di intervista che si facevano soprattutto negli anni Settanta: Costanzo stesso in “Bontà loro” e poi in “Acquario”, ma anche Salce a “Ieri e oggi”, anche Biagi. Uno che fa le domande, e moderatamente commenta; l’altro che risponde, articolando, sfruttando i tempi lunghi della televisione d’antan. Intorno niente, nessuno, al massimo soltanto il pubblico in sala che sta zitto e applaude quando gli dicono di applaudire.



Poi non è che sono finite le conversazioni in tv, ma si sono biscardizzate o funarizzate. Dalle conversazioni a due, a tre al massimo, si è passati agli ospiti in studio, al giro di tavolo, all’anchorman che si fa da parte mentre gli altri si accapigliano, o addirittura attizza gli accapigliati; sicché nello spettatore la – diciamo – soddisfazione intellettuale che consiste nel capire qualcosa di più, nell’imparare qualcosa di più su un certo argomento, ha ceduto alla soddisfazione emotiva: compiacersi perché il l’accapigliantesi X ha prevalso sull’accapigliantesi Y. Ma così è la commedia dell’arte, il wrestling, e infatti tra gli accapigliati hanno cominciato a prendere consistenza dei ruoli, delle maschere: il professore schizzato, il fanatico filo-occidentale, il fanatico anti-occidentale, il pacato ragionatore, la giornalista-soubrette che non le manda a dire. Non che non siano divertenti, tutti questi stronzi on display, ma io mi ricordo Gassman intervistato da Aldo Falivena a “Ring”, ed era meglio.



Anche nelle interviste scritte, devo dire, mi pare che si sia andati non tanto verso la funarizzazione quanto verso il casuale, l’anodino, il tirato via, anche e soprattutto il brutto stile da consumarsi su smartphone piuttosto che su carta. A me piacciono sia le conversazioni simulate, come in Platone, sia quelle reali, se le due voci in dialogo appartengono a persone intelligenti, e se la sbobinatura è stata fatta con un po’ di orecchio per la musica delle parole. Per esempio, il libro-conversazione tra David Lipsky e David Foster Wallace Although Of Course You End Up Becoming Yourself, o il saggio-conversazione di Hannah Arendt e Günter Gaus, che nasce come intervista televisiva, o anche le interviste della “Paris Review” (in Italia, di “Una Città”), o le vecchie interviste della Fallaci. E il mio poeta preferito, Philip Larkin, ha detto le verità più interessanti su di sé e sulla vita non nei saggi ma nelle rare conversazioni con un critico capace di fare le domande giuste: “Aveva l’impressione di essere una specie di outsider?”, gli ha chiesto Miriam Gross; e lui: “Mah, non mi piacevano granché gli altri bambini. Finché non sono diventato grande pensavo di odiare tutti quanti, poi una volta cresciuto ho capito che erano solo i bambini a non piacermi. Quando ho cominciato a incontrare persone adulte, la vita si è fatta più piacevole. Orribili i bambini, non è vero? Egoisti, chiassosi, crudeli, volgari piccoli bruti”. Sono delizie che in un saggio “a una voce sola” si avrebbe ritegno a dire – persino Larkin.



In C’eravamo tanto odiati. Breve storia dell’antiberlusconismo (Il Mulino 2024), sempre Minuz osserva che non si stava affatto meglio quando si stava peggio, cioè quando c’erano due canali e i programmi cominciavano dopo pranzo, e benedice invece la tv variopinta degli anni Ottanta-Novanta: “… tutta un’esaltazione postuma per la Rai anni Settanta che è in gran parte frutto del fastidio per l’altra tv, quella commerciale, coloratissima e pop, venuta dopo. Ogni volta che sento qualcuno rimpiangere la Rai anni Settanta perché ‘allora sì che c’era la cultura’, vorrei potergli togliere all’istante Netflix, canali, telecomando, colore”.



Un po’ è vero; ma è anche vero che a tanti ragazzini educati male o non educati affatto tra le mura di casa la televisione pre-privata consentiva ogni tanto uno sguardo su un mondo più compìto, più urbano (poi uno naturalmente può preferire la schietta naturalezza del popolo: io no). Per far capire quanto fosse noiosa la tv degli anni Settanta Minuz cita il palinsesto di una giornata-tipo del Programma nazionale, che in effetti può apparire un po’ grigio:

ore 11.00: Santa messa


ore 12.00: La giungla retributiva (rubrica d’attualità)


ore 12.15: A come Agricoltura


ore 14.00: La figlia del capitano, di Aleksandr Puškin


ore 17.00: La tv dei ragazzi


ore 18.00: Infanzia oggi: parliamo di streghe


ore 19.00: Cronaca registrata di un tempo di una partita di serie A


ore 20.30: Orlando furioso di Ludovico Ariosto

Ma a parte che la differita di un tempo di una partita di A era un raro piacere, in quella Età della Penuria (è il sentimento mirabilmente descritto da Baglioni in Tutto il calcio minuto per minuto), il Furioso delle 20.30 è quello di Ronconi, è un capolavoro; e persino le plumbee tribune politiche, in fin dei conti… (In generale, poi, vale sempre quello che diceva Leopardi nello Zibaldone sull’incredulità dei posteri, quando torneranno col pensiero a un’epoca che non ha goduto delle comodità che loro giudicheranno necessarissime alla vita: “Eppur noi non sentiamo, non ci accorgiamo di questa tanta impossibilità o difficoltà di vivere che ci verrà attribuita; ci par di fare una vita assai comoda, di comunicare insieme assai facilmente e speditamente, di abbondar di piaceri e di comodità, in fine di essere in un secolo raffinatissimo e lussurioso”).



Adesso che è finita sia la virtuosa televisione in bianco e nero della mia infanzia sia quella variopinta che piaceva a Minuz (e anche a me, ma un po’ meno), adesso che l’intrattenimento per i non ottuagenari l’ha preso in carico internet, ci si domanda che spazio possa esserci per quella vecchia civilissima cosa che è la conversazione, specie se si considerano i problemi ben noti: il contrarsi dello span d’attenzione, per cui una canzone di tre minuti è già troppa lunga, figuriamoci un discorso; il moltiplicarsi degli eventi che chiedono di essere visti o ascoltati, la cultura che viene divorata dall’intrattenimento, il quale a sua volta viene divorato dalla distrazione…



Una risposta possibile è: un bel programma di due ore girato in ristrettezze, quasi in miseria, con un paio di telecamere, una vicina e una lontana, all’interno di un piccolo teatro, con due tizi poco famosi sul palcoscenico che dialogano con un terzo tizio invece abbastanza famoso (ma non sempre) non del mondo in generale ma della sua vita, dei fatti suoi. Questa è una descrizione obiettiva dello spettacolo intitolato “Tintoria”, che è in pratica l’unica cosa che io veda con piacere, nell’ampia offerta di trasmissioni-podcast che girano in tv o in rete, anzi l’unica cosa che io aspetti con piacere e gratitudine ogni martedì mattina (le puntate escono settimanalmente, il martedì appunto), per poi poterla vedere con calma su YouTube la sera o nei giorni successivi. Dato che nella mia bolla (dodici persone) quasi tutti conoscono e apprezzano “Tintoria”, e il martedì o il mercoledì commentano insieme a me la buona o cattiva riuscita dell’ospite, la simpatia dei due intervistatori, snocciolando anche i nomi di quelli che dovrebbero essere auspicabilmente i nomi dei prossimi ospiti di “Tintoria”, o anche quelli di coloro che andrebbero re-invitati, tanto sono stati simpatici e performanti – dato tutto questo mi pare di poter concludere che “Tintoria” è il programma, la cosa che l’Italia oggi deve conoscere e lodare, ed è la ragione di questo articolo.



Dunque, il set. Il set generalmente è un teatrino che sta a Via del Mandrione, Roma sud-orientale, una zona molto lontana dall’asse Biblioteca Nazionale – Biblioteca Vaticana che frequento di solito, e che forse i miei amici romani, anche loro tutti zona 1, definirebbero “sprofondo” (ma non so, la geografia simbolica delle città è l’ultima cosa che un forestiero riesce ad afferrare; internet dice: “Situato nell’area urbana del Mandrione, anello di congiunzione del tridente Casilina, Pigneto, Appio Tuscolano sorge un’area ricreativa, luogo polifunzionale per il benessere della tua estate”, e non uno di questi nomi mi suona familiare, a parte “Pigneto” che nella simbologia che ho in mente rimanda a “intellettuali di sinistra non benestanti”, e a un delizioso racconto di Alessandro Gori). Insisto su Roma perché Stefano Rapone e Daniele Tinti, i due diciamo conduttori-intervistatori, sono molto molto romani: nell’accento, nel modo in cui stanno seduti sulle sedie, nelle felpe. Però in un modo simpatico: sono il lato yang della romanità. Il lato yin è Francesco Lollobrigida.


Quando non sono sul palco di “Tintoria”, Rapone e Tinti fanno i comici di professione, cioè salgono sul palcoscenico e cercano di far ridere, una cosa difficile, spaventosa. A “Tintoria” non devono veramente far ridere, devono mettere a suo agio l’ospite settimanale, farlo parlare: un ospite solo per volta (o due o tre, se si tratta di coppie o trii comici), come usava prima dei talk-show, quando negli studi televisivi si fumava (qui non si fuma ma si bevono alcolici). Sono intervistatori miti, quasi evanescenti. Ma anche questo, in un modo simpatico. Apre Rapone con due domande fisse: “Come stai?” e “Che cosa hai fatto oggi?”. Se l’ospite è facondo, bastano queste due domande molto intelligenti a farlo parlare per dieci minuti, anche venti, trenta. Poi si parla di come l’ospite ha iniziato la sua carriera, poi si va a ruota libera, molto rilassatamente, bevendo birra. Si smette dopo un’ora e mezza, due ore, anche più di due ore; le ultime domande sono di nuovo domande fisse e riguardano: i dittatori esteri, la droga e la merda.



Nella mia bolla c’è ampio consenso sugli ospiti migliori, cioè più divertenti, spigliati, interessanti. Non abbiamo stilato una classifica. C’è una medaglia d’oro, abbastanza indiscussa, su cui tra poco. Ma c’è un gran numero di medaglie d’argento a pari merito. Per dire, il cantante Dario Brunori, l’attore Paolo Calabresi, l’attore Pietro Sermonti, il regista Paolo Sorrentino. Poche donne, nessuna sul podio: forse è uno spettacolo un po’ da maschi. Brunori è incredibilmente simpatico; Sermonti, che è un uomo di ottima famiglia, sembra un adorabile selvaggio; Sorrentino è ovviamente una delle persone più intelligenti d’Italia; Paolo Calabresi, personalmente, prima di vederlo a “Tintoria”, pensavo che fosse un bravo attore comico, invece no: intanto ha un talento comico prodigioso nel raccontare, e poi viene da Strehler, dal teatro serio, e si vede (su YouTube ho poi trovato una sua bellissima intervista proprio su Strehler).


Medaglia d’oro: Giancarlo Magalli. Magalli, quelli della mia generazione se lo ricordano perché lavorava con Boncompagni e Raffaella Carrà al programma di mezzogiorno della Rai, prima come autore poi come presentatore; poi ha fatto a lungo – a lunghissimo, una trentina d’anni – il programma di chiacchiere e cucina “I fatti vostri”. Così quando l’abbiamo visto apparire sul palcoscenico di “Tintoria” ci siamo detti “boh”, anche perché aveva avuto una brutta malattia, chissà come se la sarebbe cavata. Invece dopo dieci minuti abbiamo visto la verità: per mezzo secolo avevamo sottovalutato il talento comico-affabulatorio di Giancarlo Magalli. Questo è un uomo che ha lavorato con Totò: come galoppino, ma con Totò. E’ un uomo che non solo ha conosciuto Vittorio De Sica ma è stato assunto da Vittorio De Sica per presentare una serata dedicata alla musica dell’allora giovane Manuel De Sica. Era compagno di scuola di Mario Draghi, di Christian De Sica. Ha conosciuto tutti. E’ un pedigree raro, ma magari non unico. Solo che il passato non conta in sé, conta come lo si indossa, e riuscire a ridere e a far ridere di tutti, dalla famiglia De Sica alla Carrà ai Vanzina al Papa, e soprattutto di sé, di sé – ecco un modo splendidamente umano di indossare i propri anni.



Adesso la bolla, che si è riunita, avrebbe delle richieste per le prossime puntate, ospiti potenzialmente interessanti che si vorrebbero ascoltare, e volentieri sfrutto quest’ultimo paragrafo per avanzarle a Tinti e Rapone: vorremmo Paolo Bonolis, Diego Abatantuono, Checco Zalone, Corrado Guzzanti, Pierfrancesco Favino, Valerio Mastandrea. Donne: Virginia Raffaele, Chiara Galeazzi. E soprattutto Enrico Brignano, loro sanno perché.

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