Il re britannico tra Samoa e Australia per il summit del Commonwealth. La senatrice aborigena Lidia Thorpe lo accusa di essere “genocida” e le colpe dei padri ricadono ancora sui figli. Ma in realtà la tournée oceanica dei reali è andata bene
“Nessuno può cambiare il passato, ma possiamo imparare la lezione e fermare le ineguaglianze che proseguono”. Parole di Carlo III a Samoa, al summit del Commonwealth, questo simulacro di impero cui i Windsor sono inspiegabilmente affezionatissimi, chissà, sarà la nostalgia di Britannia trionfante. Il discorso del re è una risposta alle ripetute richieste di scuse, autocritiche, pentimenti e risarcimenti per il passato coloniale e schiavista della Gran Bretagna, tutto un fardello dell’uomo bianco, e non nel senso in cui lo vedeva Kipling
Anche Keir Starmer ha fatto capire alle ex colonie che di comprensione per la colonizzazione il Regno Unito ne può offrire quanta ne vogliono, di sterline molte meno. Due anni fa, Carlo, ancora principe del Galles, rappresentò mamma Elisabetta a un vertice in Ruanda e in quell’occasione fu molto più reciso e deciso nel mea culpa: da sovrano dev’essere più circospetto. Prima di sbarcare a Samoa, c’era stata la visita in Australia, funestata a Canberra dallo show della senatrice aborigena Lidia Thorpe che ha apostrofato il re dandogli del “genocida”: “Ridacci la nostra terra e tutto ciò che ci avete rubato, le ossa e i teschi dei nostri morti, i nostri bambini, la nostra gente” (le colpe dei padri, evidentemente, ricadono sui figli). Perfino il primo ministro australiano, Anthony Albanese, repubblicano convinto, ha bollato la sparata come “volgare, oltraggiosa e del tutto inappropriata”.
In realtà, la tournée oceanica di Carlo e Camilla è andata bene. Certo, i governatori dei sei stati australiani, repubblicani anche loro, non sono andati ad accogliere quello che è ancora il loro re, e una statua della regina Vittoria è stata imbrattata di vernice rossa (“non ne siamo affatto divertite”, avrebbe commentato l’augusta antenata nel suo miglior tono refrigerante). E magari per Carlo è stato un po’ imbarazzante scoprire sulla Bibbia dove tutti i regnanti in visita appongono la loro firma quella di Diana, già passata da quelle parti nel 1983, e con lui.
Ma per il resto il re ha fatto il re con la disinvoltura di chi ha alle spalle un lunghissimo apprendistato: ha stretto mani, grigliato salsicce a un barbecue, perfino augurato “salute!” a un alpaca che gli aveva starnutito praticamente in faccia. A Samoa, poi, le cose sono andate anche meglio. E così si è visto Carlo III portare al collo una collana di conchiglie, bere la kava, la bevanda locale descritta come “leggermente narcotizzante” e presentarsi alla cena di gala in maniche corte con una specie di fascia da smoking a motivi samoani intorno alla nobile pancia: svenimenti a Savile Row, suppongo (ma è stato notato che le mani di Carlo sono sempre più gonfie e arrossate, mentre lui se le gratta continuamente: e giù paginate allarmate sui tabloid).
Per un settantacinquenne malato di cancro non c’è male. Benissimo, poi, che qualcuno cominci a mettere dei paletti a questa cultura del lamento dove torti remoti benché indiscutibili alimentano proteste retroattive e concretissime richieste di scuse, ma soprattutto di compensazioni. Altrimenti si attivi pure il sindaco Gualtieri, così almeno si scopre che esiste, e chieda soldi ai discendenti di Alarico e a quelli di Carlo V per i rispettivi sacchi di Roma. Magari così si riuscirebbe per una volta a pulire un po’ la città.