Facce fiamminghe: il mondo osservato da James Ensor

Anversa celebra il pittore e incisore belga in quattro diversi musei. Maschere e specchi, tentazioni e figure salvifiche, volti finti per svelare le ambiguità e tutte quelle insicurezze che ancora oggi dominano la natura umana. Le regole dell’arte riscritte

Il senso dell’imponente mostra diffusa dedicata dalla città di Anversa a James Ensor nel settantacinquesimo anno dalla scomparsa, che coinvolgerà fino al prossimo gennaio quattro musei e decine di negozi allestiti in copia conforme alle sue maschere esilaranti e tragiche, in un gioco di specchi involontario con la folla molto sciatta che affolla questa città altrimenti ricca, colta e bellissima, sta tutto in una piccola nota che accompagna il video esplicativo alla celebre “Tentazione di sant’Antonio”: “Queste figure rappresentano l’espressione dei desideri moderni”. Dunque, non sono tentazioni, ma obiettivi. Sesso, soldi, potere, conquista, violenza: fisica, sessuale, di guerra. Il tema delle “tentazioni”, delle vanitas, è vecchio quanto la storia di sant’Antonio anacoreta nel deserto della Tebaide narrata da Atanasio da Alessandria, ma è chiaro che il Sant’Antonio di Ensor poco spartisca con gli Antonio cattolici, i santi nerboruti e molto sexy alla Procaccini che distolgono gli occhi da una giovinetta bianca e soda che li osserva con sguardo lascivo, e che modernizzi piuttosto le visioni apocalittiche del connazionale cinquecentesco Joos van Craesbeeck, e la passione per il grottesco o lo sberleffo praticata da Hieronymus Bosch, insieme con quel gusto tutto nordico per l’osservazione in dettaglio, frutto di esistenze vissute molto fra le quattro mura di casa alla fiamma della candela o del lume a petrolio e dove anche la zucca appoggiata sul tavolo della cucina assume l’aspetto del volto deforme del ciabattino che abita di fronte.



Il sant’Antonio di Ensor, ultimato nel 1887, non è un uomo esposto alla seduzione del vizio in generale, i vizi capitali con la maiuscola; siamo noi lasciati alla mercé della vita moderna, circondati dalle mille seduzioni di un mondo brutale e violento, e del tutto incapaci di fronteggiarli. Inginocchiato in preghiera, gli occhi stretti ma la mente aperta, “wide shut” come avrebbe detto Kubrick, il sant’Antonio del pittore di Ostenda, sul quale vigila un Cristo con l’elmetto, prende le distanze dalla malattia, dalla deformità che in quegli anni è ancora stigma sociale e scherno crudele (per tratteggiarlo, pare che Ensor si ispirò a Joseph Carey Merrick, “l’uomo elefante” dell’Inghilterra vittoriana, per memoria andare a rivedersi l’omonimo film di David Lynch, che squarcia il cuore, o il classico degli anni Trenta “Freaks”), ma che allontana da sé anche lo stupro ghignante che si scorge in un angolo e che ti riporta alla cronaca di ogni giorno. Inquieta perfino la rappresentazione plastica dei danni del fast food, che all’epoca era ovviamente un non dato, ma al quale già inneggia un tizio nell’angolo dell’opera, in quella sinistra processione borghese che pochi anni dopo ispirerà a Emil Nolde i suoi ricchi stralunati in giallo ocra. Il tizio porta sul volto una maschera, e inscritta sulla fascia della tuba la propria passione per il “bon boudi”, il sanguinaccio, e le “frites”, mentre alla base del disegno scorre una scritta che celebra la gloria di saint Emilion, che non è il santo, ma l’omonimo vino di Bordeaux, e tutti paiono usciti da una delle troppe friggitorie di cui sono costeggiate le strade dei centro città di oggi, dove il cibo è soddisfazione immediata, sazietà contro l’inquietudine, torpidità da picco glicemico. E’ un mondo infimo e basso, elementare e irreparabile, che si leva dal profondo, dall’es che verrà esplorato dalla teoria psicoanalitica pochi anni dopo ma che tutti sanno già dove risieda. E’ il pošlost narrato quarant’anni prima da Gogol, il sottosuolo dozzinale e sguaiato in cui vive Cicikov, il compratore di anime morte, l’antieroe che lo scrittore-poeta ritiene necessario descrivere e valorizzare perché, come scrive in uno scorcio biografico al capitolo undicesimo, “hanno talmente massacrato l’uomo virtuoso che in lui non c’è più nemmeno l’ombra della virtù: è tempo di attaccare alle stanghe un farabutto”.



“Sono molto contento della ‘Tentazione’: vi ho aggiunto un altro paio di centinaia di figure”, scriveva Ensor agli amici Ernest e Mariette Rousseau mentre andava completando questo disegno di quasi due metri di altezza, composto da cinquantuno fogli affiancati, che il Kmska, acronimo impronunciabile del Museo Reale delle Belle Arti di Anversa, ha restaurato nel suo laboratorio un decennio fa perché la carta, materiale fragilissimo, quella di un album figurarsi, stava assorbendole una dopo l’altra, compresa un’immagine mitologica che rappresenta il secondo punto cardine di quest’opera e che ricongiunge Ensor non solo ai suoi contemporanei, ma al cuore della cultura occidentale. Si tratta di un disegno a penna e carboncino del Simurg, o Anqa, l’uccello mitologico della tradizione persiana che nidifica sull’Albero della Scienza, ha poteri taumaturgici e unifica il cielo e la terra (paradossalmente, i millennial ne sanno parecchio più di noi boomer per via di un celebre gioco di ruolo e anche per la sua versione di fenice che compare nella saga di Harry Potter, stillando lacrime guaritrici). Nel disegno di Ensor, il Simurg rappresenta una delle poche figure salvifiche fra le centinaia di indemoniati, corrotti, immorali che lo popolano; ma lo è anche nel testo omonimo, di un decennio antecedente a quest’opera, e che più lo richiama per impostazione e visione, e cioè “La tentazione di sant’Antonio” di Gustave Flaubert, anno di stesura finale e pubblicazione 1874, dove compare dotato di quattro ali, di un piumaggio aranciato e di una lunga coda di pavone. Siamo agli albori del Simbolismo, ma anche alla sua ideale congiunzione con il mondo medievale della riflessione teologica e del rapporto profondo, manicheo, fra bene e male, e con l’arte che meglio rappresenta questa riflessione, alla quale lo stesso Flaubert si era ispirato. E questa arte è, nuovamente, fiamminga.



Nelle sue “Notes d’un voyage en Provence et en Italie”, lo scrittore ventiquattrenne che accompagna nel viaggio di nozze sua sorella Caroline, malata, descrive infatti i capolavori d’arte ammirati, e in particolare “Le tentazioni di sant’Antonio”, opera storicamente attribuita a Pieter Bruegel il giovane e agli anni del suo soggiorno italiano, attorno al 1552. La tavola, conservata a Palazzo Spinola, a Genova, produce su Flaubert un effetto così potente, grottesca com’è e così similare al suo modo di intendere il mondo, da convincerlo a scrivervi attorno una lunga composizione narrativa, anzi “l’opera di tutta la mia vita”, come la definirà molti anni dopo, una volta conclusa la terza versione: “Mai ritroverò slanci e abbandoni d’arte simili a quelli che mi furono dati allora”. In questi slanci, in particolare nella prima versione del 1849 e che l’amico di una vita Maxime Du Camp bocciò sonoramente, il futuro autore di “Madame Bovary” riversò buona parte delle suggestioni di cui si nutriva, la lussuria, il piacere, la ricerca del potere, fra donne fatali e trasgressive (nessuno ha mai esplorato l’ossessione di Flaubert per il culo femminile, che si ritrova in molte sue lettere, anche ad amiche), demoni seduttivi, anticipando molti elementi dell’immaginario della fine del secolo ed evidenziando soprattutto il nesso decadente fra sacro e diabolico, fra profano e spirituale, che avrebbe definito successivamente l’opera di Joris Karl Huysmans, del suo epigono D’Annunzio e, sul fronte dell’indagine scientifico-spirituale, di Sigmund Freud, che collegava la “Tentazione” alla teorizzazione intellettuale sul tema della religione. Il sant’Antonio fine pensatore di Flaubert è immerso in un mondo al tempo storico e mitologico nel quale compaiono veri moralisti come Tertulliano (“dopo Gesù la scienza è inutile!”) e antiche divinità egizie come Neith, fra luoghi esotici che evidenziano la passione ottocentesca per l’oriente, come Baia o Byblo, e altri elementi classici, come lo Stige.



Alla rappresentazione del testo di Flaubert venne chiamato nel 1888, non a caso, il pittore per eccellenza del Simbolismo, Bertrand-Jean Redon detto Odilon, che nell’arco di dieci anni realizzò per due diversi imprenditori, l’editore Edmond Deman e il famoso gallerista Ambroise Vollard, un totale di quarantadue litografie. Che Redon godesse di una significativa presenza nella mostra del Kmska su Ensor era insomma ovvio e necessario, vieppiù considerando il titolo che il curatore Herwig Todts le ha dato: “I sogni più sfrenati di Ensor. Oltre l’impressionismo”. “Abbiamo cercato di dimostrare come Ensor abbia infranto le regole dell’arte per poi riscriverle radicalmente” dice. Nonostante qualche tentativo di inserirsi nella corrente, era ovvio che l’impressionismo francese non facesse per lui, che osservava la vita dallo studio allestito nella soffitta della casa dei genitori e ne era incuriosito dall’aspetto “inquietante e grottesco, stravagante e divertente”. Pittura, tecniche nuove di incisione (le sue ricerche richiedevano talvolta l’intervento dei pompieri), musica, studiata con piacere e competenza, fino alla composizione, nel 1913, di un delizioso balletto in chiave debussiana, “La gamme d’amour”, per il quale si fa anche scenografo e costumista. Ecco, il divertimento è una chiave importante per comprendere l’opera di questo pittore che un altro dei musei di Anversa, il Fomu, ha voluto paragonare all’esplorazione di Cindy Sherman nella fotografia organizzandole la più completa retrospettiva mai vista: oltre cento opere, dagli anni Settanta a oggi, che ne mettono in luce la critica alle convenzioni sociali e l’ossessione per il mascheramento che, come in Ensor, non ha affatto l’obiettivo di nascondere o di deformare, quanto di svelare, di sottolineare, di mettere in luce.



Per molti anni, Ensor è stato definito come il pittore delle maschere, il ragazzo sedotto dal bric à brac del negozio di curiosità e souvenir della sua famiglia, a Ostenda, il collezionista di volti teatrali di cartapesta, specialmente orientali. Ma non è così: il lavoro dell’artista attorno al trucco, all’abito, al colore, è ancora una volta rappresentazione simbolica e al tempo stesso disvelamento, basti vedere il suo autoritratto con cappello fiorito, dipinto attorno ai trent’anni, e la sua esplorazione del valore del trucco, che mette bene in luce “Masquerade, make up & Ensor”, un’altra delle mostre organizzate ad Anversa al Momu, il museo della moda, direttamente collegato alle attività dell’Accademia e dove è ospitata anche parte dell’opera dei “favolosi sei”, i rivoluzionari del vestire che attorno agli anni Novanta del Novecento ne cambiarono le regole, da Ann Demeulemeester a Dirk Bikkembergs, e quanto ci mancherà Dries Van Noten che pochi mesi fa ha deciso di ritirarsi a vita privata. “Nel corso della storia, il trucco – che per voi italiani è un sostantivo dal significato molteplice – è stato spesso paragonato a un mezzo per nascondere il proprio volto”, dice la curatrice Elisa de Wyngaert: “Ensor, osservatore critico del mondo e delle persone che lo circondavano, ne riconosceva le insicurezze e le false civetterie”.

Dunque, quando, dal 1888, decide di utilizzare volti finti, carichi, deformati, e abiti di forte cromatismo per disvelare le ambiguità della natura umana e i suoi sentimenti profondi, lancia messaggi e moniti validi tuttora: perché indossiamo maschere? Perché abbiamo paura di invecchiare? Come far fronte a ideali di bellezza che cambiano continuamente ma sono sempre irraggiungibili? Il settore del make up ha dato vita a un’industria miliardaria, l’unica che regga alla crisi del momento peraltro, che pone gli esseri umani di fronte alla loro impermanenza fisica, alla perfezione perseguita e alle paure esistenziali, ma allo stesso tempo è una forma di espressione personale, di sperimentazione artistica, di gioia, di libertà. Ensor ne riconosceva entrambe le valenze, anche di genere sessuale. La mostra avrebbe potuto esplorare banalmente e ancora una volta la Rrose Sélavy di Duchamp, invece fra i tanti esempi sceglie l’alter ego di Christian Lacroix, ispirato al personaggio più instabile del romanzo “Grandi speranze” di Dickens, “miss Havisham”. E’ vestita, come si conviene, da sposa abbandonata, oltre un velo, fantasma e presenza ossessiva. Il noi dei grandi desideri non esauditi, o anche sì.

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