Perché l’uomo più ricco del mondo si dà allo sport

Il gruppo Arnault dalle Olimpiadi alla F1. E per la prima volta nel calcio a Parigi: l’obiettivo non è di diventare il nuovo Urbano Cairo che rimette in piedi il Torino, ma di ridare slancio alla vendita dei suoi settantacinque marchi. Come cambia il lusso

“Con il nostro sostegno e quello del nostro prezioso partner Red Bull, speriamo di poter scrivere insieme una bella pagina del calcio francese, senza porci obiettivi precisi in questa fase. Lo sport a volte è pieno di sorprese”, diceva qualche giorno fa Antoine Arnault, futuro rappresentante della holding di famiglia, Agache, nel consiglio di amministrazione del Paris FC, annunciando la fase avanzata delle trattative “esclusive per l’acquisizione della maggioranza” della squadra di calcio della League 2. Noi, invece, siamo stupiti che si attenda stupore e sorprese per l’operazione di questo elegante quarantenne che governa Loro Piana e Berluti e che, fino all’ultima trimestrale di Lvmh, resa nota lo scorso lunedì, faceva parte del clan più ricco e potente del mondo, oggi scivolato al quinto posto, almeno secondo la classifica di “Fortune” dove Bernard Arnault resta comunque l’uomo più ricco del pianeta.

La ragione ultimativa dei molti investimenti del gruppo nello sport, a partire dalle Olimpiadi e la F1 fino al calcio è che la moda, il lusso e in particolare il beverage, cioè la terza e quarta lettera dell’acronimo LVMH, che sta per Moet Hennessy, sta perdendo quota, spazi, ma, soprattutto, interesse da parte delle masse alle quali questi beni sono indirizzati. Chi crede che l’obiettivo di questa nuova avventura sia di “insidiare il Paris Saint-Germain con Jurgen Klopp in panchina” (da gennaio 2025 il tecnico diventerà head of global soccer del gruppo Red Bull) rischia di mostrare una visione terribilmente miope, diciamo calcio-centrica, della questione. L’obiettivo di Arnault non è di diventare il nuovo Urbano Cairo che rimette in piedi il Torino, ma di ridare slancio alla vendita dei suoi settantacinque marchi, in un momento storico che penalizza profondamente, per ragioni più strutturali che congiunturali, spese nella moda e nel beverage di lusso.

Dopo oltre vent’anni di crescita pressoché costante, e solo temporaneamente turbata dal crollo delle Torri Gemelle e dalla crisi dei subprime del 2008, il sistema della moda va infatti mostrando i limiti del rapporto troppo stretto con la finanza e il marketing aggressivo, che ne ha distorto i fondamentali. Ogni giorno ci viene dimostrato come il cosiddetto revenge shopping post-pandemico, sostenuto da un biennio di risparmi, sia durato meno di quanto i brand si aspettassero, e che la scelta di rivedere verso l’alto del 20-30 per cento all’anno il costo degli accessori più ricercati, puntando sulla sola clientela affluente, abbia di fatto impedito l’accesso ai beni definiti di “lusso” alla fascia media del pubblico che, pure impoverita dalla crisi, avrebbe potuto continuare a desiderare almeno una borsa nuova all’anno e che ora non può più permettersi nemmeno questa spesa. La moda come la conosciamo non è mai stata fenomeno d’élite se non nel prezzo, ma mezzo di affermazione borghese. Averla cancellata dalle proprie strategie è stato un grave errore, così come non aver saputo conquistare il pubblico più giovane, più attento rispetto ai propri genitori alla qualità e alla sostenibilità, più consapevole.

L’affondo del più importante conglomerato del lusso mondiale nello sport è l’evidente segnale della sua necessità di allargare nuovamente il raggio d’azione, coinvolgendo fasce di pubblico che vogliono e possono permettersi la prima fascia del branding, e cioè il branded merchandising: t shirt, cappellini, sneaker sul modello di quelle indossate dal loro idolo. Non crediamo di sbagliare affermando che Bernard Arnault, discreto tennista con una speciale passione per i campi in terra rossa di Capri dove fa tappa ogni estate e lo si vede giocare ad orari impensabili tipo mezzogiorno, ottimo pianista e possiamo dirlo con cognizione di causa, non si sia mai visto su un campo di calcio per questione di riservatezza. Come alle ultime Olimpiadi con i 150 milioni investiti nella sponsorizzazione “main”, che dapprincipio l’imprenditore pareva molto riluttante a spendere e che invece hanno portato ai marchi del gruppo e in particolare a Louis Vuitton una notorietà impensabile, anche la F1, dove sarà coinvolto anche il marchio di orologi Tag Heuer, e il calcio possono rappresentare uno sbocco fino a pochi anni fa non solo impensabile, ma dichiaratamente respinto.

Poche settimane fa, sul numero di ottobre del “Foglio della moda”, tentavamo un impossibile calcolo delle nuove “collab” (alla moda piace l’elisione) fra brand e squadre, al di là degli scandali e delle infiltrazioni mafiose che di recente hanno portato all’arresto di capi ultras del Milan e dell’Inter, contiguità che consiglierebbero una certa cautela, ma che la necessità di fatturare e di strappare l’ennesimo “buy” agli analisti, fanno apparire irrilevante. L’obiettivo vero è intercettare nuove community: che poco abbiano a che fare col lusso, who cares. Ed ecco, dunque, che le cosiddette divise formalwear, quelle dei calciatori fuori dal campo, sono fornite da nomi come Loro Piana (Juventus), Zegna (Real Madrid), Off-White (Milan), Herno (Barcellona), Dior (Paris Saint-Germain, a proposito), Canali (Inter). Non c’è squadra che non collabori con brand di streetwear o menti creative alternative per i kit che poi scendono in campo. A cavallo di questo ultimo decennio, Juventus collaborò con Palace e l’attuale direttore creativo di Vuitton Homme, Pharrell Williams, quattro T-shirt in altrettanti anni, mentre la Spal oggi collabora con Slam Jam, e il cantante Drake ha addirittura salvato il Venezia dal fallimento ed è diventato sponsor tecnico con Nocta, il suo brand nato dalla collaborazione con Nike. Il Napoli si è affidato a Giorgio Armani, con la linea EA7, mentre l’Udinese ha lavorato con il brand emergente e sostenibile Florania della designer Flora Rabitti. È arrivato il momento di rivedere la nozione di lusso.

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