Noi tutti eredi di Narciso

Noi postmoderni siamo ansiosi, il futuro ignoto e minaccioso invade il nostro presente. Ci troviamo di fronte a una dittatura della performance, a una pretesa di controllo assoluto della realtà. Il capolavoro di Caravaggio ritorna in trasferta, questa volta in Brianza

Dal 26 ottobre al 29 novembre, il Narciso di Caravaggio sarà esposto a Villa Confalonieri (Merate) grazie a un’iniziativa della Fondazione Costruiamo il futuro con Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo


Il Narciso di Caravaggio lascia Palazzo Barberini di Roma. Per un mese, dal 26 ottobre al 29 novembre 2024 sarà in Brianza, a Merate, esposto gratuitamente a Villa Confalonieri grazie a un’iniziativa della Fondazione Costruiamo il futuro con Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo. Non è la prima volta che il capolavoro di Michelangelo Merisi va in trasferta, è successo una decina di volte negli ultimi vent’anni e recentemente è stato esposto al Pompidou di Metz. E’ il suo terzo ritorno nella regione che ha dato i natali al pittore (Milano, 1571): nel 1992 l’opera era stata a Cremona, nel 1998 nel capoluogo lombardo.Presentando l’iniziativa il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, ha detto che “la cultura non è solo esposizione di carattere museale, è molto di più: è una porta di accesso universale. Un capolavoro che viaggia genera interesse, curiosità e formazione”.



Il curatore della mostra, Giovanni Morale (vicedirettore delle Gallerie d’Italia-Milano) ha parlato della versione caravaggesca del mito di Ovidio come di “una sorta di archetipo, la prima che viene in mente pensando al Narciso. Un uomo che si innamora della propria immagine – un po’ come noi che ci facciamo i selfie – che ci offre l’opportunità di riflettere sul mito e sulle sue implicazioni sociologiche e antropologiche. Per scoprire magari che la conoscenza di sé stessi passa non solo dal guardarsi, ma anche, e forse soprattutto, dal rapporto con gli altri”.



Narciso dunque è un’“opportunità per riflettere”. Una penetrante riflessione sul narcisismo, la sua genesi e le sue conseguenze, ci viene offerta da “Ansia e idolatria”, saggio a tre mani di Cesare Maria Cornaggia, psichiatra con cattedra all’Università di Milano Bicocca, Giulio Maspero, ordinario di Teologia dogmatica alla Pontificia Università Santa Croce, e Federica Peroni, psicologa clinica e psicoterapeuta (Inschibboleth edizioni, 144 pp., 15 euro).


Narciso era un ansioso, fino a morirne. E noi postmoderni siamo suoi eredi diretti. Questo, almeno, è quello che credo di aver capito dalla lettura di questo libro. Nel quale si trova la definizione che segue: “La condizione tipica dell’ansia è quella di essere prigionieri dentro una fuga”. Difficile immaginare un ossimoro più ossimorico: la fuga dalla prigione è per antonomasia l’esperienza della libertà. Difficile anche trovare un’immagine più consona all’ansia, ormai una “patologia della normalità”, che connota l’esistenza di noi contemporanei, e che queste pagine smascherano nella sua genesi culturale, aiutano a riconoscerla, quindi a conoscerla, e indicano una via possibile, se non per liberarsene, per viverla con libertà.



“Don Segundo Sombra” dell’argentino Ricardo Guiraldes è un romanzo di inizio Novecento che nulla c’entra con un saggio sull’ansia e il narcisismo contemporanei, ma nelle sue pagine si trova una definizione che ne rivela la presa di coscienza in certi istanti, là quando il volitivo protagonista si ferma un attimo a constatare la sua “indaffarata inutilità”. Il giovane in questione aveva un sogno, diventare un gaucho, incarnato da un idolo, appunto, don Segundo Sombra.Idolatria – spiegano Cornaggia & Co. – è una categoria biblica, ma non stupisca che ne faccia uso chi cura la psiche, ché la psicanalisi non a caso è nata in terra ebraica con “Josef Breuer e Sigmund Freud che, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, iniziarono a cercare le cause di malattie le cui manifestazioni a livello fisico non erano nel corpo, ma nella psiche. Da tale scarto eziologico nacque la psicanalisi”.



L’idea che l’idolatria sia il “centro generativo dell’ansia” è un debito che gli autori riconoscono a un libro di appunti di un giovane studente morto ventenne. Parimenti idolatrica, e quindi ansiogena, è “l’abolizione del limite (e delle differenze), concezione postmoderna nella quale siamo totalmente immersi”. Tentativo illusorio che dimentica che “il limite, invece, è fondante l’identità”. “Il limite è strettamente connesso all’irriducibilità del reale e contribuisce a definirla, in quanto senza limite appare difficile definire ogni cosa”.



Per noi invece il limite è insopportabile. Ed è questo il motivo per cui siamo diventati incapaci di scrivere poesie da cui sgorghino le lacrime delle cose, ma inondiamo le pagine delle nostre lacrime, delle nostre reazioni emotive. Lo aveva ben capito G. K. Chesterton che, a chi sosteneva che il bravo artista non si cura né di leggi né di limiti, ricordava che “l’arte è limitazione, l’essenza di un dipinto è il quadro che lo circoscrive”; e al convinto evoluzionista che dichiarava con enfasi che “l’esagerazione è progresso” rispondeva: “Non vedete che questo fatto dell’identità è il limite posto a tutte le cose viventi?” “E io nego che ci sia un limite!” “Adesso capisco – concluse il poeta – perché, pur facendo dei bellissimi discorsi, non abbiate mai scritto una poesia”. Perché che il poeta ama i limiti del suo verso, sono quelli che gli permettono di essere poeta. Ma torniamo al punto: perché siamo ansiosi? Perché il futuro (ignoto e minaccioso) invade il nostro presente: “Ognuno di noi ha un’immagine del proprio futuro e questa immagine può generare, se tale futuro diviene idolo, il terrore che non accada”.

“Il futuro non rappresenta un’attesa, una possibilità con la quale posiamo relazionarci, ma rappresenta una definizione rigida, fissa”, un idolo. Se è permesso parafrasare Joseph Ratzinger, che parlava di “dittatura del desiderio”, qui ci troviamo di fronte a una dittatura della performance, a una pretesa di controllo assoluto della realtà nella convinzione che “la realtà sia frutto, nel bene e nel male, della nostra azione”. Tentativo che si infrange con il fatto che “la realtà non è riducibile”: è un dato con cui fare i conti (e incontri). Ma noi, invece, nella nostra ostinazione pensiamo (pensiamo?): “Se non posso ridurre la realtà a me, la nego o me ne invento un’altra”. Esemplificando: “Possiamo modificare apparentemente il reale in modo da farlo diventare a nostra immagine (non siamo né maschi né femmine, siamo femmine oppure maschi a seconda di come in quell’istante ci sentiamo)”. Ci affidiamo cioè a un idolo/idea/concetto invece di riconoscere ciò che siamo. E’ il vecchio inganno del serpente, “Sarete come Dio”, in cui cascano Adamo ed Eva perché dimentichi che già lo sono (creati a sua immagine e somiglianza).

Immaginare la propria onnipotenza, però, ha un contrappasso dantesco: “Un buco interiore che il soggetto cerca di riempire controllando quanto gli accade attorno, con l’ingenerarsi di un’ansia terribile che pur mostra la sua impotenza”. Un vuoto – perfetta fotografia del prototipo umano d’oggi – che ha molto a che fare con il narcisismo, con il bisogno del riconoscimento idolatrico di sé stessi. Qui l’analisi degli autori si fa impietosa, perché non parla di patologie da psicanalisi classica, ma di un clima culturale nel quale siamo immersi: “Io non posso essere/esistere se non ho quelle caratteristiche essenziali che mi permettono di affermarmi, anche in termini di potere o seduzione”.

“Da tale prospettiva – aggiungono – si possono leggere tanti episodi di eccessi performanti di persone il cui lavoro, il cui impegno, è tutto orientato a far calare l’ansia di non riuscire a produrre sufficientemente da gratificare, appunto, il proprio narcisismo. Nella performance accadono contemporaneamente idolatria e narcisismo”. Nella performance si affida la propria consistenza alla considerazione degli altri, che per quanto perseguita non soddisfa il vero bisogno dell’uomo, quello di essere amato. Valga per tutte la citata testimonianza di Fantozzi che chiede: “Pina, tu mi ami?” “Ugo, io ti stimo moltissimo” “Sì, vabbè, mi stima”. Nella rincorsa a prestazioni sempre più performanti assistiamo allora a una “ipertrofia dei mezzi” (tecnologia) e a “una ipotrofia del senso”. Nell’affannato e mortifero tentativo di risposta a questo bisogno abortiamo il nostro desiderio di significato (signum facere, lasciare un segno), cioè di vivere. E finanche di morire (è uno dei paradossi più illuminanti del libro, suggerito da Federico Fellini: l’uomo che non ha un fine non riesce ad avere una fine).



Ma non di sola analisi – frutto di una capacità di ascolto degli autori che sembra infinita, propria della loro professione e della loro umanità – si nutre questo saggio. Uscendo dal presunto realismo di Kafka per cui “c’è una meta ma non una via”, qui, invece, troviamo l’indicazione di una strada, che informa tutte le pagine del libro e che così viene sintetizzata a pagina ottanta, con le parole di un paziente: “Bisogna uscire dal pensare ai propri pensieri e arrivare a guardare la realtà”. Bisogna avere mente e cuore aperti all’imprevisto, al fatto che possa esserci nella realtà qualcosa che non abbiamo pensato.



Penso che questo suggerimento sia un vero atto di carità (termine che gli autori non usano) per tutti noi, un’attenzione che ci “permette di percepire l’epidemia di ansia nella quale siamo immersi, sintomo di una sofferenza psicologica collettiva”. Così che il rapporto con la realtà, con l’altro da sé, diventi relazione e non solo consumo, potere e possesso. Consigliare una direzione è un autentico sostegno alla libertà, oggi ridotta alla mera possibilità di scelta. Perché – vado a memoria – come ha scritto credo Antoine de Saint-Exupéry: a uno che si è perso nel deserto, libertà non è dirgli che può andare dove vuole, ma indicargli la strada per un’oasi. E avere la pazienza di aspettare che ci si incammini da solo, perché “la libertà va rispettata, e bisogna avere questa posizione anche di fronte alle persone che manifestano ‘bizzarrie’ molto strane”.

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