Nel Novecento di Raymond Aron

Un nuovo libro raccoglie il corso tenuto dal filosofo e politologo francese al Collège de France nel 1973, dal quale emergono con limpidezza i tratti salienti del suo pensiero: i dubbi sul giudizio della resistenza degli ufficiali francesi agli Alleati e a De Gaulle, la polemica con chi riduce la politica a maschera ipocrita della guerra, nel tentativo di far convivere conoscenza e azione

Nel Novecento, secolo del pensiero e dell’azione in apparenza senza limiti, Raymond Aron ha tentato di ricordarceli con probità e prudenza. Il suo modello è un cittadino che, non credendo né alle Leggi della Storia né all’Avvento dell’Uomo Nuovo, rifiuta sia gli assoluti del machiavellismo sia quelli dell’idealismo. Questo cittadino è pronto ad assumersi le sue responsabilità in un eventuale conflitto, ma non perciò è pronto a tutto. Nell’Europa degli anni Sessanta e Settanta, Aron ha continuato a ritenere che lo spettro della guerra andasse tenuto a bada senza sottovalutazioni e senza enfasi. La sua lezione consiste in un intreccio calibratissimo di analisi concettuali e riferimenti storici: il suo demone gli vieta infatti di sovrainterpretare gli eventi riducendoli subito a un unico schema (sia quello del suo avversario Sartre, sia quello della più vicina Arendt). Queste caratteristiche emergono con limpidezza anche nel corso tenuto al Collège de France nel 1973 (un decennio dopo l’uscita del grande libro sulla pace e sulla guerra tra le nazioni) e pubblicato ora in prima edizione mondiale da Marsilio, a cura di Alessandro Campi e Giulio De Ligio, col titolo “Teoria dell’azione politica”.

Nel definire la sua etica politica, Aron si confronta qui da una parte con Schmitt e dall’altra con Max Weber, da una parte con Sun Tzu e dall’altra con Clausewitz. Nell’èra termonucleare dei due blocchi, nota Campi, si fa per lui pericolosamente labile “la classica distinzione fra interno ed esterno e meno pregnante quella tra pace e guerra”. Lo scontro tra stati è penetrato nei loro confini, si è allargato al pianeta, e da militare si è fatto civile, rivoluzionario, terroristico: il che rende l’antico Sun Tzu più attuale del moderno Clausewitz, al quale si sono comunque ispirati due geni della rivoluzione come Lenin (creatore del novecentesco “partito”) e Mao (stratega del “conflitto prolungato”). Nel nuovo contesto il tradimento – che da inizio Ottocento non è solo rottura di un patto, ma delitto contro la nazione – assume un aspetto meno limpido. Come giudicare, si chiede ad esempio Aron, gli ufficiali francesi in Nord Africa che durante la Seconda guerra mondiale, avendo giurato fedeltà a Pétain, resistettero agli Alleati e a de Gaulle? Si trattò, per loro, di capire in poche ore chi fosse il nemico: “problema filosofico” che investe la legittimità del potere e la visione del mondo, e impone a ogni soldato lasciato solo di trasformarsi in politico e partigiano, col rischio che a decidere del suo statuto siano poi i vincitori (i quali nel XX secolo istituiscono tribunali sui crimini di guerra). La questione di fondo riguarda dunque una società dove vacillano i valori comuni e le regole del gioco.

Aron, di contro, prova a rimarcarne l’importanza. Pur con malinconia, sconsiglia le ingerenze negli affari di altri stati – almeno quelle che hanno obiettivi grandiosi e rischiano un’escalation fuori controllo. Nell’orrore bellico, distingue i mezzi più o meno accettabili (si vedano le pagine su Dresda e il Vietnam). Ammette che le antinomie dell’èra atomica gli sembrano irrisolvibili, ma aggiunge subito che è sbagliato enfatizzarle. Polemizza con chi riduce la politica a una maschera ipocrita della guerra. Non confida in un ordine universale, ma crede che contro una sempre incombente ostilità senza frontiere occorra preservare la “migliore forma della condizione mista dell’umanità”. Il tentativo di questo professore-giornalista, come chiarisce De Ligio, è insomma quello di far convivere conoscenza e azione senza farle coincidere ingannevolmente. Campi lo chiama “pensatore della contingenza”. Aron parla di un mondo che non c’è più; ma come dimostrano le situazioni di Ucraina e Israele, ci sono ancora le sue conseguenze.

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