“Ianua – Genova nel Medioevo”, l’evento ideato dal medievista Antonio Musarra, ha lo scopo di ricordare l’importanza di una città che è sempre stata, per vocazione o necessità, porta per l’Europa e il Mediterraneo, per genti e merci e per la conoscenza
“S’ingolfa pei vichi antichi e profondi. Fragore di vita […] e la città comprende e s’accende…”. Così Dino Campana su Genova, nei Canti Orfici, chiaramente. E s’è ingolfato tutto un fragore appassionato per la storia medievale nella città, tra l’11 e il 13 ottobre. Lunghe code per visitare chiese e conventi, chiostri e musei, biblioteche e palazzi, logge, torri e sacelli, un overbooking di prenotazioni per partecipare agli eventi. La passione per il medioevo è in costante crescita e non solo per la fama di Barbero e l’ardore dei suoi vassalli, che certamente hanno contribuito a diffondere un interesse oltre che ampie conoscenze (una sua lectio su fra Salimbene da Parma si avvicina al milione di visualizzazioni su YouTube, un vero prodigio!), ma anche perché il medioevo è una voragine della storia in cui si tende a precipitare un vasto immaginario, spesso falso o artefatto, dove tutti possono proiettare le proprie fantasie.
“Ianua – Genova nel Medioevo” è un evento ideato dal medievista Antonio Musarra, promosso e organizzato dal comune genovese e cofinanziato dal ministero del Turismo tra i più meritevoli degli ultimi tempi, che ha permesso di aprire al pubblico le porte di un vasto patrimonio, spesso chiuso o poco noto, della Genova medievale, una facies della città ancora ben conservata tra gli incastri misteriosi dei carrugi, spesso celata, cinta d’assedio dalla modernità che la fagocita, in quel vasto guazzabuglio architettonico tra l’ardesia e il cemento di una città già “Superba per uomini e mura”, unica in Italia nel bene e nel male. L’antico nome di Genua, che deriverebbe forse dall’etrusco kàinua (città nuova), diventa per la manifestazione la parola latina “Ianua”, ossia porta. E una porta in effetti lo è sempre stata, per vocazione o necessità, porta per l’Europa e il Mediterraneo, portale d’ingresso per genti e merci e ora portale di conoscenza.
In un periodo in cui le città italiane sono assediate dal turismo di massa, spesso subìto dai cittadini, i genovesi si riappropriano della loro storia e delle loro pietre (“Le pietre e il popolo” si intitolava un incisivo pamphlet di Tomaso Montanari), riappropriazione che passa necessariamente per la conoscenza. Quattro le fasi di questo progetto, che ha previsto uno studio accurato e una catalogazione dei siti da parte di un comitato scientifico di studiosi, seguite da conferenze e visite guidate. I curiosi visitatori che si sono sgomitolati tra i circa quaranta siti aperti al pubblico non sono stati abbandonati a loro stessi, ed è qui uno degli aspetti di maggior pregio di tutta l’operazione; ad accompagnarli nelle visite hanno trovato giovani divulgatori scientifici, selezionati con bando pubblico nazionale e poi appositamente preparati con corsi di formazione (che si aggiungono al loro percorso di studi). L’Italia è quel paese in cui tutti credono di poter dire la loro sull’arte, lamentava Zeri, “la seconda lingua degli italiani”, secondo una certa vulgata, e così in tanti, a forza di vulgate, si svegliano divulgatori.
Il divulgatore scientifico è un ibrido, mai ben delineato, un po’ studioso e un po’ comunicatore, talvolta istrionico e spesso legato a siparietti televisivi poco edificanti, ma in questa occasione, forse per la prima volta, si è cercato di definire e formare questo importante ruolo di mediatore del Sapere, dalla grande complessità della ricerca (troppo spesso estremamente semplificata al livello di un Bignami) a un’accessibilità per il grande pubblico, riconoscendone l’importanza anche tramite un doveroso compenso, aspetto spesso ignorato. Forse, seguendo questo esempio virtuoso, potremmo dimenticarci delle guide della domenica, dei sedicenti studiosi, delle allegre signore in pensione affezionate alla Terza pagina culturale, o di giovani di buone speranze imbevuti di video ma di scarse letture, che hanno però la “passione per l’arte”, insomma, potremmo dire addio a divulgatori improvvisati o dilettanteschi. Il boom di partecipanti e la risposta entusiasta dei cittadini è un buon segno che ci ricorda come il patrimonio culturale può e deve creare cittadinanza, fare da collante sociale, essere cosa pubblica. Genova, dopo l’ormai consolidato successo dei “Rolli days”, si candida a buon esempio per l’Italia nella valorizzazione del patrimonio culturale.