Nel suo ultimo libro, l’autrice turco-britannica crea un racconto che lega l’Inghilterra vittoriana a Ninive: una ragazzina yazida e una scienziata londinese finiscono nelle pieghe di un mondo che ha bisogno di riscoprire il potere delle storie per allargare la propria visuale
Ecco Elif Shafak, la cantastorie: anche quando nelle sue pagine mette più zucchero del necessario, anche quando inizia a planare su luoghi lontani nel tempo e nello spazio con un pretesto narrativo tenue come una goccia d’acqua, non si può non fermarsi ad ascoltarla. Questa volta parla di fiumi, di acqua, di narrazioni femminili rimosse e delle genealogie più o meno segrete che uniscono l’oriente all’occidente. I ricordi dell’acqua – “Ci sono fiumi nel cielo” nella versione originale, in Italia pubblicato da Rizzoli – permettono a Shafak di fare un passo indietro rispetto alla sua Istanbul, che comunque compare in alcune pagine scintillanti, e di guardare al mondo intero, creando una storia ambiziosa che lega l’Inghilterra vittoriana a Ninive, passando per una contemporaneità in cui una ragazzina yazida e una scienziata londinese finiscono nelle pieghe di un mondo che ha bisogno di riscoprire il potere delle storie per allargare la propria visuale. E puntare ad una salvezza che, nelle pagine della scrittrice turco-britannica, sa di giustizia e pace, ma anche di recupero dell’incanto.
Una goccia d’acqua si trasforma e si rigenera, si appoggia sulla testa del feroce ma coltissimo Assurbanipal e cade nella bocca di un neonato estasiato dal suo primo sguardo sulla realtà dopo essere stata rugiada o neve, migliaia di anni prima, nei giardini pensili, mentre il mondo costruisce dighe e guarda con preoccupazione terre fertili trasformarsi in deserti. “Il re sa bene che per dominare un’altra cultura bisogna sottrarle non solo le terre, i raccolti e gli altri beni, ma anche l’immaginazione collettiva, i ricordi condivisi”, scrive l’autrice, che trova nella ricostruzione di quella materia perduta e rimossa un bacino inesauribile di storie a cui attingere. Con un piglio estroverso e curioso, accompagna la sua goccia d’acqua, così come nell’ultimo romanzo seguiva le vicende di un albero di fico nelle terre contese di Cipro, e ci porta lontano, con quel suo passo narrativo che abbiamo iniziato ad amare con La bastarda di Istanbul e ce la fa perdonare quando è un po’ sentenziosa.
“Non esiste storia più bella di quella di un ragazzo”, recita l’adagio dickensiano, e questa è una stagione letteraria in cui l’autore di David Copperfield non è mai troppo lontano, vedi Damon Copperhead. Qui Charles Dickens appare in persona, intervenendo nella storia principale, ossia quella di Arthur, un genio dei numeri nato nella miseria degli slums londinesi e capace di applicare la sua intelligenza matematica alla decodifica dei caratteri cuneiformi al British Museum, arrivando a scoprire, decifrare e tradurre l’epopea di Gilgamesh. Arthur Smith è esistito veramente, qui ha preso una y in più e una libertà sentimentale che aggancia la sua storia a quella delle comunità yazide in Iraq, a Ninive dove è andato due volte e dove è morto per il colera, malattia dell’acqua, piaga della Londra ruggente e feroce di quel tempo e dei paesi lontani rispetto a cui la vecchia Europa, ci ricorda Shafak, non ha mai perso il senso di superiorità.
Ma l’acqua ha una memoria, come sospetta una delle protagoniste de I ricordi dell’acqua, Zaleekhah, la giovane scienziata che si trasferisce a vivere su un’imbarcazione ormeggiata sul Tamigi, a Chelsea, dopo una separazione che l’ha lasciata inaridita. La sua storia si interseca con quella di Narin, una bambina yazida destinata a perdere l’udito, portata dalla nonna, con gesto incauto e fatale, in visita sulle rive del Tigri e nei luoghi dell’Iraq in cui i loro antenati, ingiustamente chiamati “adoratori del diavolo” e vittime di persecuzioni e genocidi, avevano vissuto e sofferto. Tutto torna, tutto si incastra, forse un po’ troppo. Eppure abbiamo fatto il giro del mondo e del tempo, e di questo siamo grati a Shafak.