Colle Oppio, da fucina del melonismo a luogo da rimuovere mentre impazza la guerra dei fratelli coltelli

Nella storica sezione della destra italiana si è formata la classe dirigente che ora guida l’Italia. Trent’anni dopo di quell’esperienza restano ricordi e omissioni. Così il caso Giuli è il detonatore di una resa dei conti a destra

E’ stato l’umido garage della Silicon Valley di Fratelli d’Italia. “La tavernetta”, tipo la serie Sky sugli 883, dove un’insolita band provò a uccidere, non l’Uomo ragno, ma il reducismo nostalgico e sfigato. Eravamo quaranta post fascisti non al bar – ma a Colle Oppio – che volevano cambiare il mondo. E ce l’hanno fatta. Sono arrivati nei gangli vitali dello stato. Tuttavia quella “comunità di destino” 30 anni dopo non c’è più. Anzi, si accapiglia.



Come da esergo del caso Giuli, il potere ha levigato quei legionari. Li ha resi sospettosi gli uni degli altri. Il cerchio magico si è stretto fino a entrare in un fazzoletto. In pochi sono disponibili a evocare certi ricordi, quei ricordi. Ora non si scherza più. Niente nostalgia di “come eravamo”. Gratta gratta si scopre che è in corso una sottile opera di rimozione. Anzi, nel frattempo i protagonisti di quella storia si azzannano fra di loro. Come racconta la faccenda del ministro della Cultura trafitto dai fratelli coltelli (in una storia piena zeppa, come d’abitudine, di sorelle bionde e forti). Ma guai a dirlo al sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, per esempio. Ti fa uno shampoo di venticinque minuti al telefono e alla fine ti dice: “Guarda, bello mio, che io Giuli lo conosco da trent’anni! Basta rovistare nell’immondizia”. Per fortuna, e meno male. La sera andavamo a Colle Oppio, ora tutti a Palazzo Chigi. Ma attenti alle spalle.



Via delle Terme di Traiano 15A. Una piccola porta di ferro dipinta con l’italico tricolore, e sorvegliata da telecamere, custodisce i settanta metri quadrati che hanno fatto da incubatrice alla destra che governa il paese da due anni. Rumore metallico, la chiave gira. Si scendono una decina di gradini: un salone, un corridoio, una saletta e un piccolo ufficio. Più un bagno (che sorgerà dopo decenni di stress alle vesciche).

Roma capoccia der monno infame, quartiere Esquilino, Colosseo sullo sfondo, Colle Oppio. Anzi la Colle Oppio, al femminile. La sezione tra leggenda e realtà, oblio e un certo fastidio. La prima del Msi. Pensiero magico e profondità di elaborazione culturale inedita e stravagante. Nasce come una simil falegnameria. Già ricovero di ex repubblichini, esuli istriani e dalmati nel 1946. Nel gergo comune il nome con cui si riconosceva era Colle Oppio, visto il parco archeologico adiacente, con un fulmine che attraversa le due lettere montate una dentro l’altra come simbolo. Su un pino secolare veniva issata ogni pomeriggio una bandiera tricolore in tela pesante, quasi un rituale. La sede era aperta.



Queste mura attraversano con sangue e difficoltà gli anni 70, fino ad Acca Larentia. Nel 1980, dopo la strage di Bologna, Giorgio Almirante decide di chiuderla per evitare rischi e accuse. I ragazzi del Fronte della gioventù riescono a farsi ridare le chiavi e iniziano una battaglia eretica contro il partito di Via della Scrofa: dicono no alla pena di morte voluta da Almirante, lanciano Fare Fronte nelle università, raccolgono generi alimentari per i terremotati irpini. Si inizia a fare “metapolitica”. Nascono a destra movimenti alternativi nelle università, si cerca l’accordo con Comunione e liberazione per le elezioni nell’ateneo. Alla Sapienza tre ragazze colloppine (Gloria, Emanuela e Fabiana) consegneranno al rabbino capo Elio Toaff una lettera densa di condanne per le leggi razziali e piena di amicizia verso Israele.

E’ in questo contesto che Giorgia Meloni inizia nel 1992 la sua palestra politica. Lei e non solo lei. Dalla Colle Oppio, così centrale, dipendono tutte le sezioni di Roma ovest fino al mare, Garbatella e Ostia comprese.

Chi conta al giorno d’oggi, a Roma, è passato da questo parco buio o comunque non può non conoscerlo. E’ stata “l’Ena” di un’intera generazione della droite italienne. Ovviamente all’amatriciana, scanzonata. Con una bella iniezione di endogamia e paranoia. Racconta un dirigente diventato importante: “Noi che eravamo più grandi ci dovevamo raccomandare con i nostri ragazzi affinché tenessero a bada gli ormoni”. Chi sgarrava veniva processato. Gli impenitenti cacciati. Polizia politica, ancora attualissima nel governo dove la caccia all’infame, che di natura è una spia, è un passatempo praticato.



Allora scendiamo in quella sezione. Eccola, sembra di vederla, Giorgia-Calimero: cappellino da baseball e bomberino nero. Ti guarda sempre con quegli occhi dardeggianti. Entra ed esce con passo marziale, elettrica, in questa spelonca che fa venire i reumatismi solo a osservarla da fuori. Ci sono manifestazioni da preparare, l’autofinanziamento, il volontariato, le scuole e le università dove fare proseliti, il fortino da difendere dagli assalti dei “kollettivi” che tutte le volte deviano sempre da queste parti quando passano da via Merulana per sfociare a piazza San Giovanni. Non sono mai carezze, ma perfino bombe piazzate di notte. Bombe rosse. “Ao’ ci sono i volantini da scrivere”. I dibattiti fiume. Le riunioni. I Richiami del corno e il Solstizio d’inverno da onorare come si deve. Il ricordo degli occhi azzurri di Stefano Recchioni, uscito da qui a vent’anni e mai più rientrato perché rimasto a terra ad Acca Larentia, colpito da un proiettile di un carabiniere. “I nostri morti”. E poi i ritiri spirituali. L’elaborazione politica, interminabile. Le letture in circolo. La fascinazione per il capo di Cuib, l’ultranazionalista Corneliu Zelea Codreanu: c’è anche il suo nome scritto sulle pareti insieme a quelli di Evola, Papini e Degrelle. E poi: le passeggiate in silenzio ad alta quota. La misticanza in cui si voleva mischiare Gramsci e Ezra Pound, Pasolini ed Ernst Jünger. I congressi da vincere nella neonata An, lotte intestine che possono finire a sediate. I viaggi tutti insieme a El Alamein. Va detto: a questa storia non è mancata la fortuna e alla fine si capirà se avrà avuto un valore: per ora ci sono indizi abbastanza contrastanti, diciamo. Di sicuro quel comunitarismo non c’è più, ora che le autoblu e le segretarie sfrecciano di qua e di là, ora che i capi di gabinetto sono diventati strumenti di resa dei conti o di ostentazione di chi comanda sul serio. “Qui non stiamo a Colle Oppio”, si è sentito in questi giorni che hanno portato alle dimissioni di Francesco Spano.



Meglio seguire ancora per un attimo questa ragazzina dall’energia esplosiva, così la descrivono: malata di politica sociale, stakanovista fino alla paranoia: “Ci penso io, controllo io, vado io”. Ma capace di essere “compagnona”, di cantare e fare scherzi e imitazioni, di imporsi in un ambiente dai forti connotati maschili, seppur pieno zeppo di donne vista la media a destra, in una comunità che dall’esterno appare chiusa a doppia mandata. “Questa c’ha le palle”, dicono di Calimero i suoi amici che si chiamano fra loro con camerateschi soprannomi: Bussola, il Lungo, Pejo, Spugna, Beautiful, Bibi, il Noto. Eccola Giorgia Meloni, Giorgina Calimero, ragazzina, poi giovane donna. Una soldatessa: alterna improbabili momenti di serietà ad attimi di normale sbraco. Brilla. Viene dalla Garbatella, Roma sud, dopo un’infanzia movimentata a Roma nord. E’ accompagnata sempre dalla sorella di nemmeno due anni più grande: si chiama Arianna, sgobbona filiforme, timida e accondiscendente, che ha spesso in mano una manciata di soldi spicci perché le tocca passare le giornate in una cabina telefonica a chiamare tutti gli iscritti della sezione per ricordare loro la convocazione di questo o quell’appuntamento: “Dovete esserci, raga’, Fabio ci tiene. Stasera c’è Mille e uno scopo”. Ovvero il decalogo in cento punti del bravo militante. Va letto ad alta voce, a turno. L’ha scritto un neo architetto, ex olimpionico di nuoto, con due spalle che levati. Un tizio particolare, generoso e autoritario. Lo chiamano Dante per via del profilo alla francese. Sembra avere sempre un’idea spettinata su tutto. E’ Fabio Rampelli, il capo indiscusso. La guida carismatica, già pioniere delle giovanili, il fratello maggiore di questa compagnia fissata con Tolkien e l’anello del potere, la sinistra della destra. Dante ci crede, tantissimo. Verrà mollato per un periodo da quella che poi diventerà sua moglie, la giornalista del Secolo Gloria Sabatini, perché nel 1993 decide di candidarsi (e sarà eletto) alle comunali per il Campidoglio, quelle del bipolarismo di Gianfranco Fini contro Francesco Rutelli. Lei non accetta che lui si comprometta con il sistema, che a loro non piace, perché lo combattono da dentro e dal basso, da là sotto. A Colle Oppio sono fatti così. Non amano manco i giornalisti “perché sono tutti di regime e sparano balle sopraffine”, come da strofa di una canzone di rock alternativo. Un altro tormentone è “Il domani appartiene a noi”, testo originariamente controverso (per alcuni nazistoide), ma poi rivisitato. Sono forse visionari, chissà se un po’ mattocchi. Però ce l’hanno fatta: è storia. Stop.



Trent’anni dopo. Calimero è diventata presidente del Consiglio, prima donna nella storia della Repubblica. La timida sorella è la numero due di Fratelli d’Italia, partito del 30 per cento. L’ultimo segretario di questa sezione quando c’era il Msi e il primo di An, è il Lungo Marco Marsilio, governatore dell’Abruzzo al secondo mandato. L’attuale segretario della sezione (che ormai fisicamente si appoggia altrove, in via Sommacampagna) è il presidente della commissione Cultura della Camera, Federico Mollicone, Molly, er Mollica, quello che ha litigato in Transatlantico con Antonella Giulia, la sorella del ministro.



Il figlio di un diplomatico che si divertiva nei dibattiti culturali è il potentissimo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Fazzolari, Spugna. Il quale faceva spesso coppia con un altro amico, appassionato di archeologia: è l’amministratore delegato della Rai, Giampaolo Rossi, Bussola, postura mazziniana e uomo-pipa. Poi c’è Chiara Colosimo, diventata nel frattempo presidente della commissione Antimafia. La sorella di Calimero è stata una vita, e poi si è lasciata, con il bello della compagnia, Beautiful, attuale ministro dell’Agricoltura, anzi della Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida. E ancora: senatori, deputati, consiglieri comunali, assessori regionali, governatori, come Francesco Rocca. Il ragazzo spilungone con i capelli fulvi che adolescente dalla sezione di via Livorno bazzicò questo posto – prima di andarsene in polemica perché erano troppo moderati e badogliani per approdare a Meridiano zero – è l’attuale periclitante ministro della Cultura, Alessandro Giuli. Il suo predecessore Gennaro Sangiuliano, gran furbacchione, invece passava da qui a presentare le sue biografie sui grandi della Terra. Il maestro di tutto questo, il capo dei Gabbiani,altro nome di questa corrente, è rimasto per la seconda legislatura vicepresidente della Camera. E questo dettaglio spiega tutto: la rimozione, il desiderio inconscio forse di non restare intrappolati in una fase storica, bella e guascona, ma diversa e inattuale, troppo romantica, poco pragmatica. Chissà.



La sezione dove tutto è nato venne chiusa con un blitz dalla sindaca del M5s Virginia Raggi nel 2017 per una faccenda legata a presunte morosità del canone sebbene a prezzo calmierato. Chi le è succeduto in Campidoglio, Roberto Gualtieri del Pd, lo scorso anno l’ha restituita a questo mondo. La sede è stata ristrutturata come si deve e data in affidamento all’associazione “10 Febbraio” che dentro vi ha allestito una mostra fotografica dedicata a Norma Cossetto, studentessa istriana, uccisa dai partigiani comunisti del maresciallo Tito. Alla mostra, inaugurata da Rampelli con l’allora ministro Sangiuliano, non si sono ancora mai viste le sorelle Meloni, Fazzolari, Lollobrigida, Giuli… E’ passato un anno. Perché? I protagonisti di quella stagione di Colle Oppio, diventato per l’opposizione simbolo di settarismo e chiusura mentale della premier e di tutto il cucuzzaro di governo, sono divisi nel ricordo. C’è chi non ne parla mai, chi minimizza, chi si commuove. Lollobrigida: “E’ una storica e importante sezione che ha avuto grandi capacità di promuovere dibattito e fare cultura. La prima volta che vi entrai avevano messo una bomba la notte prima”.

Mollicone: “E’ la nostra caverna platonica, il luogo dove è nata la strategia per uscire dal ghetto degli anni 70 e 80 con l’associazionismo. Costringemmo un’intera generazione a guardare il sole a dire basta nostalgia”. Marsilio: “Fu un punto di riferimento, molto più avanzato del resto della destra tradizionale, contro un mondo cupo. Fondammo case editrici, il Bosco e la nave, associazioni rivolte all’ambiente, come Fare verde del compianto Paolo Colli”. Scrisse Rossi, ad Rai, sul blog del Giornale: “Furono i ragazzi di Colle Oppio, alla fine degli anni 90, a organizzare le prime tende di solidarietà per i barboni che stazionavano nel parco; furono loro a sporcarsi le mani, a dormire in quelle tende con i diseredati, non i fighetti di sinistra. Don Di Liegro venne dai noi”. Esiste un romanzo militante che racconta questa epopea sommersa: si chiama “Colle Oppio vigila” (Eclettica) di Fabrizio Crivellari, detto Bibi, ora a capo dell’ente cinofilo. A sinistra ci avrebbero fatto tre serie tv e due documentari. A destra questo posto è il vanto della memoria di pochi, mentre gli altri sono alle prese con il potere. Zac zac. Fratelli coltelli: “Il domani appartiene a noi”. Anzi, l’oggi.

  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d’autore.

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