Ecco perché gli atleti paralimpici trasmettono felicità

Partire dalla consapevolezza della propria storia, comprendere le debolezze personali e rimboccarsi le maniche. Il presidente Pancalli racconta la crescita del paralimpismo italiano, diventato modello per il mondo dello sport. All’orizzonte c’è la fusione con il Coni: “Ma alla pari…”

“Gli atleti paralimpici, o comunque le persone con disabilità che fanno sport, sono felici. Noi abbiamo perso il senso della felicità”. La frase pronunciata dal Ministro Abodi al Festival dell’Ottimismo, organizzato dal Foglio a Firenze la scorsa settimana, ci ha fatto venir voglia di andare a curiosare in quel mondo che dal 2000 è governato da Luca Pancalli, prima pentatleta, poi campione paralimpico (8 ori, 6 argenti e 1 bronzo nel nuoto) e quindi vero Leonardo da Vinci del mondo paralimpico italiano che a Parigi ci ha regalato 71 medaglie ed è diventato un modello copiato da tutto il mondo.

Davvero quello paralimpico è un mondo felice come viene raccontato dall’esterno? Pancalli conferma. La felicità abita qui, anche se il percorso è ancora lungo per permettere a tutti i disabili e non solo a chi fa sport di raggiungerla. In vent’anni gli atleti paralimpici si sono trasformati da sfigati in eroi. “Nel 1988 quando ci incontravano in aeroporto diretti a Seul per i Giochi la gente ci chiedeva se in Corea c’era un qualche santuario. Oggi ci chiedono selfie e autografi e ci incoraggiano chiedendoci di vincere per loro”, racconta il presidente del Cip (Comitato iItaliano paralimpico) che da quando aveva 17 anni è costretto su una sedia a rotelle per una caduta da cavallo in gara. Pancalli ha ritrovato nello sport paralimpico la felicità che pensava di aver perduto. È tornato in piscina e ha cominciato a lottare per trasformare la compassione che avvolgeva gli atleti disabili in ammirazione per le loro prestazioni. È stato un visionario come si usa dire oggi, ma soprattutto è stato un realizzatore di sogni. Quando nel 1984 di ritorno dai Giochi venne a sapere che gli atleti azzurri, ma non quelli paralimpici, sarebbero stati ricevuti dal Presidente della Repubblica, prese carta e penna e scrisse al Presidente Pertini: “… lei sta dimenticando gli atleti paralimpici, perché non li sta invitando e credo che invece questi atleti meritino dignità come qualsiasi altro, perché a me la nostra Repubblica insegna che tutti gli uomini sono uguali”. Da quella volta gli atleti paralimpici non sono più stati dimenticati. Poi sono arrivate le facce (e le personalità) giuste, Alex Zanardi, Bebe Vio, Martina Caironi e il mondo paralimpico italiano ha spiccato il volo, ha invaso i canali Rai e le pagine dei giornali, realizzando quella rivoluzione culturale indispensabile per il salto di qualità. “Abbiamo avuto la fortuna di un allineamento perfetto dei pianeti. Quando abbiamo cominciato a raccogliere i frutti di quello che avevamo seminato, sono arrivati i personaggi che ci hanno permesso di fare il salto”.



Il Cip, dice sempre Pancalli è un’idea, un sentimento, una missione. Adesso possiamo raccontare che è anche felicità. “I Giochi olimpici di Parigi, coinvolgendo la popolazione che ha riempito stadi, palestre e piscine, hanno portato a un’amplificazione di quella che è l’essenza stessa del paralimpismo. Lo sport di per sé è esaltazione della felicità. Ma quando hai degli atleti paralimpici questa sensazione è maggiore perché nella comprensione del gesto sportivo la gente va oltre, immaginando la vita di queste persone nella quotidianità che può essere molto complicata in tutti i paesi del mondo. L’Istat stesso in uno studio che presentammo insieme al presidente Mattarella aveva rilevato che il 70 per cento delle persone disabili che fanno sport hanno una percezione della loro qualità della vita migliore rispetto a quella di tutti gli altri”.



“Noi avevamo un nemico – racconta Pancalli – che era quello di contrastare un sentimento umano che fa parte del gioco, la compassione, l’emozione, trasformandola in comprensione. E questo siamo riusciti a farlo nell’organizzazione del nostro modello italiano”. Il movimento paralimpico italiano oggi è un modello per tutti. Per spiegarne il segreto basterebbero un nome e un cognome, ma Luca Pancalli non vuole essere autoreferenziale. “Il segreto è esser partiti nella consapevolezza di quella che era stata la nostra storia, capire le nostre debolezze e gli asset sui quali lavorare. Con grande umiltà ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo lavorato per creare un percorso di crescita passato per l’arruolamento degli atleti nei corpi dello stato, nel gruppo paralimpico della Difesa, il riconoscimento legislativo dei permessi per gli atleti che lavorano, il coinvolgimento del mondo della scuola e dell’università, dall’organizzazione di campus per l’avviamento allo sport dei bimbi disabili, dall’erogazione degli ausili finanziari. Dovevamo fare delle cose e le abbiamo fatte”.



Il futuro, a questo punto, potrebbe essere il matrimonio tra Coni e Cip come già avvenuto in sei paesi, Stati Uniti compresi. “Non ho mai creduto alle rivoluzioni, ma ai lenti processi riformatori che si fondano su una crescita culturale della base. La fusione del mondo olimpico e di quello paralimpico non è lontanissima, ma necessita ancora di un consolidamento della crescita culturale sulla quale stiamo lavorando. Sarebbe pericoloso un calo d’attenzione in cui un grande dovesse sposarsi con un piccolo. Dove è successo finora abbiamo assistito a un abbraccio del grande sul piccolo. Non è avvenuto alla pari e questo non aiuta il percorso di crescita. Noi stiamo crescendo, abbiamo fatto una scelta coraggiosa di uscire dal Coni dove eravamo una delle 45 federazioni dell’epoca. Abbiamo percorso la strada per diventare ente pubblico e accendere i riflettori sul nostro movimento, abbiamo coinvolto le federazioni olimpiche e adesso stiamo realizzando la fusione dalla base. Quando arriveremo al momento delle nozze il fidanzamento sarà stato così lungo che saremo sicuri di far funzionare il matrimonio. Il mio sogno è che la fusione si realizzi come conseguenza di una scelta democratica del Parlamento quando si capirà che è il momento di farlo. Ci servono ancora un po’ di anni, i tempi non sono del tutto maturi”. Un Pancalli presidente del Coni dopo Malagò potrebbe accelerare il passaggio. “Non credo nella personificazione dei percorsi politici in alcune persone. Io sarei soddisfatto nel vedere un Mario Rossi completare la fusione. Un politico non vince solamente se arriva lui a fare delle cose, vince se le cose che lui ha sognato e per cui ha lavorato, prima o poi vengono realizzate anche senza di lui”. Un discorso da vero uomo politico. Pancalli uomo del futuro? Chissà. Intanto resta l’uomo della felicità.

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