La tv s’è mangiata i comici

Quant’è difficile far ridere al tempo dei secondi contati sui social. Satira scomparsa, e il pol. corr. non c’entra

Conosciamo tutti qualcuno che ogni tanto ci gira un video su WhatsApp o Instagram caldeggiando le prodezze comiche dello YouTuber, influencer, TikToker di turno: “Guardalo! Ti fa ammazzare dalle risate!!!”. E a volte sì, per carità, fa anche ridere. Altre meno. Altre per niente e siamo un po’ in difficoltà, “sìssì… simpatico”. Si comincia con un video, poi si scivola in una galassia di nickname, nomi d’arte, sigle e siglette che a noi che sul telefono ancora ci scambiamo vecchi sketch di Proietti o “Amici miei” non dicono granché. Un mondo di cicciaalsugo97, bomber90, rossellastracciatella, presto sostituiti da altri, per cui volendo non si fa neanche in tempo ad appassionarsi troppo. Sui social la comicità nasce già a forma di meme: scenette, barzellettine, monologhi con gli effettini e le faccette. Poi pescando a strascico nel mucchio anche cose brillanti, certo. C’è di tutto. C’è troppo. In tv invece è sempre più complicato. Lo spazio per il comico si è ristretto. In treno, al ristorante, per la strada, vedi persone che sghignazzano da sole chine sullo smartphone. Ma la comicità televisiva annaspa, ce n’è poca, e quando c’è si ride meno. La satira è sparita, la satira è morta, si ripete ormai da anni. Dove sono i nuovi Guzzanti, Luttazzi, Albanese, le nuove Anna Marchesini? Siamo noi che siamo vecchi e brontoloni o i comici di oggi un po’ più scarsi? Ma anche i late-night americani e tutta la “galassia Letterman”, gli show di Stephen Colbert, Jimmy Fallon, Conan O’Brien, perdono spazio, spettatori, inserzionisti. Come mai? La bravura c’entra forse poco. E’ la tv che è cambiata. La tv si è mangiata i comici, e i comici non servono più come prima (mentre al cinema il problema non si pone, il cinema italiano per larga parte non è ironico, lo si pretende serioso, dolente, altisonante, e i cinepanettoni non si fanno più).

Negli anni 80 e 90 la tv si guardava soprattutto per ridere. “Zelig” e “Mai dire gol”, Luttazzi, gli imitatori, la factory della Dandini



Puntuale ecco l’intervista a un vecchio comico che se la prende col politicamente corretto, e non si può più dire nulla, l’autocensura, il pensiero unico. Troppo facile, troppo comodo. Semmai è il contrario: ci sarebbe talmente tanto di cui ridere che non si sa da dove iniziare. Nei miei ricordi di bambino cresciuto con la tv degli anni Ottanta il palinsesto era invaso dai comici. La tv si guardava soprattutto per ridere. Nei Novanta ancora di più. La risata Mediaset di “Zelig” e “Mai dire goal”, quella parastatale della Rai, con le incursioni di Luttazzi, ancora l’onda lunga dei grandi imitatori, la factory Dandini & Co. Poi piano piano, dopo i social, come una mutazione antropologica. Ma già un programma come “Tale e quale show” si è mangiato le imitazioni. Tanti imitatori dilettanti, nessuno talent. Guzzanti era per esempio impareggiabile nell’imitazione di personaggi televisivi come Funari o Gabriele La Porta. Se però oggi un comico imita Mario Giordano non fa così ridere. E forse non c’entra solo la bravura titanica di Guzzanti, ma il fatto che il vero Mario Giordano che sfascia una zucca di Halloween con una mazza da baseball sembra già l’imitazione, la parodia, la caricatura di tutti i Mario Giordano possibili. C’è ancora spazio per i comici nella tv generalista o finiranno tutti a “Lol”, come in una riserva, un hub, una pensione per artisti?

Il comico “ha perso centralità in assoluto”, dice Saverio Raimondo. In un’epoca di mitomania di massa tutti si prendono molto sul serio

“Non c’è dubbio che nella generalista gli spazi per la comicità si siano ristretti”, mi dice Saverio Raimondo, avendo alle spalle stand-up comedy, radio, tv, teatro (come sapete scrive anche su questo giornale, e non si sa dove trovi il tempo per fare tutto, sicuramente ha un ghostwriter). “I programmi comici sono spariti con la scomparsa della seconda serata che negli anni Novanta era il pilastro della comicità televisiva. La seconda serata permetteva di testare un programma, in genere era lì che si sperimentavano format comici, di satira. Serena Dandini, per dire, partiva dalla seconda serata, poi è arrivata in prima”. Però non è solo questo. E’ che il comico “ha perso centralità in assoluto”, dice Raimondo. In un’epoca di mitomania di massa tutti si prendono molto sul serio. Da un lato deflagrazione del comico sui social, dall’altro ironia sempre più rara, incompresa, perdita collettiva del senso del ridicolo, assenza di doppio registro. Tutto viene preso alla lettera. “Non a caso molti comici per non sbagliare tornano alle barzellette e oggi uno come Gino Bramieri sbancherebbe su TikTok”. “Pensa anche ai libri dei comici. Una delle ultime che è riuscita a vendere tanto è stata Littizzetto. Poi sempre meno. Ormai lo scaffale dei libri di satira, col faccione del comico in copertina, neanche lo trovi”. E qui tornano in mente i libri di “Sani Gesualdi” di Nino Frassica, tirature record, vendite alle stelle. Oggi quei numeri lì li fa “Io sono Giorgia”. E’ difficile fare il comico quando la parodia si mangia la realtà. “Sì, perché cambia tutto. Se guardi le immagini di Capitol Hill ti sembra davvero di vedere una parodia, una cosa esilarante. Quasi ti dimentichi che è stato un attacco senza precedenti alla democrazia americana, un evento drammatico, però è così, ti arriva anche come una cosa surreale, a suo modo una celebrazione della perdita del senso del ridicolo”.

“I social innescano la sindrome dell’abbuffata”, dice Giovanni Benincasa. Marchesini, Solenghi, Lopez “fenomeno irripetibile”



Anche secondo Giovanni Benincasa, principe degli autori televisivi, creatore di “Una pezza di Lundini”, oggi è complicato mandare in tv i comici puri. “Prima di tutto perché siamo abituati a vedere troppa roba sul telefono”, mi dice. “L’offerta supera la domanda. Pensa a tutta la comicità quotidiana sparpagliata su TikTok, Instagram. Rispetto alla tv i social innescano la sindrome dell’abbuffata. E’ come al ristorante: ti riempi di antipasti poi quando arriva il primo non hai più molta fame, non te lo godi”. Per cui non ha molto senso battere il tasto della nostalgia, ah il trio Marchesini-Solenghi-Lopez! Oggi li rivediamo su “Techetechetè”, uno o due minuti, ammiriamo la bravura, ma avremmo poi la pazienza di seguire tutto il loro “Promessi sposi”, che ricordo estenuante anche all’epoca? “Il trio è stato un fenomeno irripetibile”, dice Benincasa, “non c’è più stato niente del genere. Facevano ‘Fantastico’ con ascolti pazzeschi oggi impensabili, erano ancora dentro il varietà, era una comicità-evento, legata alle grandi trasmissioni del sabato sera. Cose improponibili oggi. Un varietà di tre ore, col presentatore, quei tempi lì, non lo reggi più. Oggi ‘Fantastico’ potresti seguirlo solo scrollando col pollice, saltando da un punto all’altro. E’ cambiato proprio il modo di vedere le cose. Una mutazione che va ben al di là della tv. Al posto della vecchia rivista che sfogliavi nella sala d’attesa del medico c’è lo scrolling, la nostra modalità di visione e attenzione è quella lì ormai”. Benincasa però, proprio con la “Pezza”, ha tirato fuori dal cilindro uno degli ultimi programmi comici che ci ha fatto ridere. La risata classica della tv lineare, ridestando tutto un surrealismo imprevedibile che non si vedeva da un po’. E poi Valerio Lundini, Emanuela Fanelli. “Sì, però ‘La pezza’ nasceva durante il lockdown, era un esperimento, una sorpresa. Ormai Lundini l’hanno sgamato, hanno capito tutti quanto è bravo a recitare e ‘La pezza’ non si può più fare come prima”. E infatti Lundini si è subito spostato a teatro. Emanuele Fanelli viaggia a suon di “David” nel cinema. E qui pare proprio che la tv, da punto di arrivo per i comici, sia diventato un taxi per finire magari poi a fare i podcast, anche se nessuno ha ancora capito come si fanno i soldi, coi podcast. Per i comici c’è però in effetti anche un grande ritorno del “live”. Comici che riempiono i teatri, stand-up che riempiono locali. “Il teatro sembra passarsela meglio del cinema e della televisione”, dice Benincasa, “forse è la voglia di condividere qualcosa insieme dopo il Covid, qualcosa che non puoi replicare a casa, come il film”. Il teatro ovviamente è sempre stato fondamentale per i comici. Senza l’avanspettacolo non avremmo mai avuto la commedia all’italiana. “Da giovane a Roma frequentavo un locale che si chiamava ‘Alfellini’, zona Testaccio”, mi racconta Benincasa, “all’ingresso ti davano dei sacchi di riso. Ogni sera si esibivano dei comici, uno dopo l’altro. E se il comico non piaceva gli arrivavano pacchi e pacchi di riso addosso”. Era comunque meglio del gatto morto che si usava a Roma, immortalato da Fellini. “La televisione ha raccolto questa eredità alla fine degli anni Settanta. Penso a una trasmissione come ‘Non Stop’: Verdone, Nuti coi Giancattivi, Marco Messeri, Troisi e La Smorfia… Nomi incredibili. Era un programma senza conduttore, gli sketch filavano via uno dopo l’altro. Ecco. Il ‘Non Stop’ di oggi lo fa il tuo pollice sul telefono”.



Ma a lui, Benincasa, cosa fa ridere oggi? “Come comico, chi mi fa ridere in senso assoluto è Checco Zalone. Zalone mi fa ridere anche a stanza vuota. Senza il pubblico che ti rafforza la risata, come al cinema, a teatro, la risata che cresce intorno e ti trascina. Con Zalone rido da solo. E mi fa ridere tutto: il personaggio, la faccia, quello che fa… e poi Zalone ha il talento raro della risata universale, saper far ridere tutti, bambini adulti, geometri, operai, bancari. Poi ci sono i grandi intrattenitori, come Fiorello. Ma è qualcosa di diverso dalla comicità. Lì la risata è un ingrediente dell’intrattenimento puro, ballare, cantare, raccontare. In tv invece mi piace ‘Lo spaesato’, il programma di Teo Mammucari, una cosa molto ben confezionata, c’è un’idea, c’è la scrittura, c’è soprattutto la scoperta di un lato e un talento più romantico di Mammucari, insomma è un esperimento che lo valorizza”.

La scrittura fa la differenza. Soprattutto nel comico. Si possono avere cento attori bravi, ma se non c’è nessun autore bravo la cosa non dura



La scrittura torna sempre come punto dolente. La scrittura fa la differenza. Soprattutto nel comico. Si possono avere cento attori comici bravi, ma se non c’è nessun autore comico bravo la cosa non dura. Lo ribadisce anche Saverio Raimondo. “Da noi c’è poca attenzione alla scrittura, tutto si gioca sulla performance, si punta magari sui comici, non sugli autori comici”. “Zelig, per esempio, è stato il primo caso da noi di programma comico industrializzato, serializzato, che sfornava comici a getto continuo. Un locale milanese che diventava un format, che voleva essere un po’ il nostro ‘Saturday Night Live’. Solo che lì si scriveva tutto. La parte autoriale era decisiva, da noi no”. Sia “Zelig” che il “Bagaglino” non uscivano dall’ambito del teatro filmato. Roba da tv anni Sessanta. Dal punto di vista del linguaggio televisivo erano anni luce indietro a “Drive-In”, per dire. Però rappresentavano bene i poli Mediaset e Rai della risata nazional-popolare. La prima tutta sul quotidiano, il surreale, la nota di costume, l’altra schiacciata sulle maschere della politica. Saverio Raimondo fa notare qui un bel paradosso: “Alla fine in quegli anni, grossomodo tra la caduta del Muro e i primi Duemila, la vera satira politica la faceva la Rai con i programmi di Serena Dandini, mentre ‘Mai dire gol’, con la sua comicità brillante, spiazzante, anche raffinata, dalla politica si teneva lontano”. Qui certo ritroviamo anche tutta la differenza tra Roma e Cologno, una città che vive solo di politica e un polo industrial-televisivo. Poi arriva il cortocircuito di Grillo. Prima ancora dei social, l’incredibile avventura politica di Grillo ha cambiato il senso della comicità in tv. “Dopo Grillo molti comici si sono sentiti investiti da una missione. Quanti comici negli anni Duemila hanno pensato di mettersi a fare ‘controinformazione’, che fa già ridere così. Ma Grillo ha creato un cortocircuito anche nel pubblico. La gente ha iniziato a informarsi con i comici su qualsiasi tema”. I più grillizzati, posseduti dal demone del predicatore, furono Crozza, Sabina Guzzanti, ma anche Luttazzi, a cui la prima serata in Rai dette un po’ alla testa. Sabina Guzzanti, invece, si autoproclamò mafiologa. Si scaraventò sul format “Trattativa”. I comici volevano cambiare il paese. Fare l’opposizione. A un certo punto i talk-show cominciarono a riempirsi di comici. Basta politica, che palle, alleggeriamo, mettiamo due risate in apertura, a metà, in coda, non importa, ma mettiamocele. Un altro effetto collaterale del grillismo. Cantore supremo della comicità da talk fu il Crozza di Floris. Crozza si mangiava la trasmissione e Floris diventava un’appendice della “copertina” di Crozza. Il politico di turno non si preparava più le risposte alle domande di Floris, ma a casa, davanti lo specchio, provava le facce da fare alla telecamera mentre Crozza l’avrebbe preso per il culo (pare che ad Arcore in quegli anni circolasse l’adagio “mi raccomando, non ridete quando Crozza vi tira in ballo”). Dopo l’opening di Crozza si poteva digerire tutto, la finanziaria, l’elezione di un giudice della Corte dei conti, un congresso del Pd. Poi anche dai talk-show iniziarono a sparire i comici. Non ce n’era più bisogno. Il confine era saltato. Mauro Corona a “Cartabianca”, per esempio, è comico, ospite fisso, editorialista che vaga qui e là sul filo ubriaco dell’attualità. “Ovunque in tv”, dice Saverio Raimondo, “la comicità professionale è stata sostituita dalla comicità involontaria. Del resto, in quattro ore di talk-show, qualcuno che prima o poi dice una cazzata lo trovi sempre. E farà più ridere dei comici”. E per scovare i nuovi Guzzanti, i nuovi Checco Zalone, cercheremo di essere più attenti quando ci mandano video simpatici su WhatsApp.

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