La casa editrice che non mira al lettore capriccioso che oggi c’è e domani chissà

Circondarsi di abbonati per svincolarsi dalla distribuzione libraria e non perdere il gusto di far nascere una nuova opera. Fondata negli anni Settanta, Edizioni Settecolori si rinnova con un progetto editoriale che punta al recupero dei libri perduti attraverso nuovi formati di culto. Parla il direttore editoriale Stenio Solinas

Disegnata da Mimmo Palladino, l’araba fenice che campeggia sul logo delle Edizioni Settecolori può custodire vari significati. Il più immediato afferisce alla storia stessa della casa editrice, fondata negli anni Settanta da Pino Grillo e presa in mano in questo millennio da suo figlio Manuel, che lo scorso anno ha delineato un innovativo progetto affidato alla direzione editoriale di Stenio Solinas. Indica però anche il destino dei titoli in catalogo: libri andati perduti, per le ingiurie del tempo o per una certa pigrizia culturale, che risorgono in copie numerate di elegante formato, decorate da copertine monocrome già di culto. “Ci sono alcuni titoli che fanno parte della migliore letteratura del Novecento, mai usciti in italiano oppure stampati senza crederci e subito dimenticati”, racconta Solinas al Foglio. Per rendere l’idea, fra le ultime uscite, cita Londra di Paul Morand ed El Greco dipinge il Grande Inquisitore di Stefan Andres, mentre annuncia la prossima pubblicazione de Il quaderno grigio di Josep Pla, capolavoro della letteratura catalana, di un manifesto ecologico ante litteram quale “Il canto del mondo di Jean Giono, e dell’analisi flaubertiana di Mario Vargas Llosa, L’orgia perpetua. Già solo questi esempi, continua, “indicano il tono alto della casa editrice. Molti di questi titoli provengono da letture fatte negli anni da me, da Manuel Grillo e da Carlos d’Ercole, i tre moschettieri che sovrintendono alla Settecolori. Altri sono segnalazioni di soci e amici fidati”. La fiducia, anzi la fidelizzazione, pare essere la cifra scelta dal marketing di Settecolori, che passa anche dalla creazione di abbonamenti per i lettori: sette titoli a centocinquanta euro, dodici a duecentocinquanta. E’ un modo non solo per legare la clientela nel corso del tempo, ma anche per responsabilizzarla, consentendole di selezionare i propri acquisti anziché propinarle pacchetti preconfezionati, magari con l’escamotage della sorpresa.

Il numero sempre crescente di abbonati ci mette al riparo dal meccanismo perverso della distribuzione libraria, che si porta via quasi la metà del prezzo di copertina e ha tempi di pagamento lunghissimi”, continua Solinas. Inoltre, “un catalogo come il nostro non mira al lettore capriccioso, che oggi c’è e domani no, ma a quel lettore ideale che nel tempo si passa la staffetta, poiché ciò che chiede al libro è l’incanto della lettura, la bellezza dello stile, il gusto per l’avventura e per le vie non battute; una certa sprezzatura, magari, nei confronti della vita, dei suoi conformismi, della modernità che tutto schiaccia e livella, un certo snobismo o dandismo autoironico”. Oltre a un catalogo, dunque, Settecolori intende creare un canone che abbia come comun denominatore la durata: sia nella proposta di titoli capaci di sopravvivere ai decenni (o ai secoli, come nel caso de La profezia di Cazotte di La Harpe), sia nella produzione di libri che restino come oggetti di collezione, a fronte di un mercato editoriale spesso ostaggio dell’effimero, in cui si insegue in affanno la moda intellettuale e si macinano novità che in libreria appaiono e scompaiono a ritmi forsennati. Sarebbe però concretamente possibile riproporre questo modello in marchi molto più grandi, se non addirittura nelle major? La scelta dell’effimero è una necessità per sopravvivere o frutto di una talora scarsa propensione al rischio? “Naturalmente ci sono grandi editori – Adelphi, Sellerio… – che fanno un’editoria di qualità”, risponde Solinas. “Più in generale, quello che manca mi sembra il piacere e il divertimento di fare l’editore: seguire un libro dall’inizio alla fine, non abbandonarlo mai, darsi da fare e correre rischi per farlo conoscere, godere del suo successo, e così via”. Per riuscirci, propone una ricetta essenziale, quasi tautologica, che affonda dritta alla radice della questione: “Non si fanno i libri per fare i soldi. Semplicemente, si fanno per fare i libri”.

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