Il governo Meloni continua a penalizzare il ceto medio tartassato

Il grosso dell’Irpef è pagato dal 15,26% di contribuenti che dichiarano redditi da 35 mila euro in su e che si sobbarcano oltre il 63% dell’Irpef e quasi il 100% di tutte le restanti imposte dirette. Possiamo davvero andare avanti così?

Meno tasse, meno tasse, meno tasse: questa è la ricetta magica del governo. Solo così, dice, si favorisce la crescita economica. E questo è il filo conduttore della legge di Bilancio, una stanca ripetizione prodotta da politici che da 25 e più anni si sono “ricoverati” nel meraviglioso e remunerativo mondo della politica, avulso dalla realtà e dai numeri dell’economia. Per questo non mi ha molto stupito la frase del ministro dell’Economia: “Io figlio di un pescatore so distinguere tra chi fa sacrifici e chi li può fare, state tranquilli e sereni”. “Stai sereno” non porta bene, detta poi da chi dal 1996 è in politica suona pure male.

E nel solco della tradizione, non poteva che essere una legge di Bilancio che di sviluppo, tecnologia, visione del futuro e attenzione alle grandi transizioni demografica, energetica, ecologica e digitale, non ha nulla. Solo 30 miliardi (35 per il 2026 e 40 per il 2027), la maggior parte dei quali in “assistenza di sussistenza”, in deficit per altri 9/10 miliardi e basata su bonus, decontribuzioni di ogni genere, riduzione ulteriore di imposte, esenzione dell’Auuf anche dall’Isee, 1.000 euro di bonus nuovi nati e ulteriori aumenti delle pensioni minime. Deficit ancora al 2,6% nel 2027 a patto che il pil cresca ma già lo si vede in riduzione dello 0,2% e rapporto debito pil in crescita al 136 e poi al 137%.

Ma la cosa che più sconcerta è la volontà di rendere strutturale quello che ingannevolmente viene indicato come “cuneo fiscale”, ma che in realtà è uno sconto sui contributi pensionistici per redditi fino a 25 mila euro dei dipendenti, per i residenti al Sud, giovani assunti, donne madri, disoccupati e così via. Gran parte di questi cittadini paga poche o nulle tasse, ora gli diamo gratis anche la pensione. Se proseguiamo così altro che sostenibilità economica del sistema previdenziale raggiunta dopo tante riforme negli ultimi 30 anni, in dieci anni la smontiamo alla faccia delle giovani generazioni. Il ministro Giorgetti si è portato avanti dicendo al meeting di Rimini e al question time che nessun sistema pensionistico regge a questa nostra demografia. Ma se è così, perché i giovani devono versare i contributi se poi quando tocca a loro prendere la pensione, il sistema scoppia? Quanto costano tutte queste decontribuzioni?

Secondo i dati Inps il mancato gettito è stato di 20 miliardi nel 2022, 23 miliardi nel 2023 e probabilmente altrettanti nel 2024: in 3 anni 66 miliardi in meno. Si tratta di debito occulto, di cambiali non contabilizzate che verranno pagate al momento della erogazione della pensione. Poiché prima o poi le cambiali scadono, nella legge di Bilancio per il 2024 lo stato ha trasferito a Inps per pagare le quote di pensione beneficiarie di decontribuzioni varie l’enorme cifra di 32 miliardi: un’intera legge di Bilancio.

Ma restiamo ai numeri e partiamo dalle tasse cui pare il governo abbia dichiarato guerra. Secondo l’ultimo studio di Itinerari Previdenziali sui redditi relativi al 2022, dichiarati nel 2023 ed elaborati dal Mef in questi ultimi mesi, quelli che fanno una dichiarazione dei redditi positiva e quindi pagano almeno 1 euro di Irpef sono solo 32,373 milioni di cittadini su 59,030 milioni di abitanti. Significa che il 45% degli italiani non ha redditi e, quindi, vive a carico di qualcuno. Ma c’è di più: su 42 milioni di dichiarati il 93,7% dell’Irpef è pagato da 19,66 milioni di contribuenti, mentre i restanti 22,35 milioni ne pagano solo il 6,31%. Domanda: per quanto tempo può durare un paese se una minoranza deve pagare per tutti?

Entriamo un po’ più in dettaglio. Il 40,35% dei dichiaranti con redditi da negativi a zero, da zero a 7.500 € lordi l’anno e da 7.500 a 15.000 € lordi l’anno, che con le persone a carico fanno 23,818 milioni di abitanti, pagano l’1,28% di tutta l’Irpef: la metà di questi non paga nulla né tasse né contributi. Per garantire a questi primi tre scaglioni di reddito la sola sanità, facendo la differenza tra l’Irpef versata e il costo pro capite della sanità (131,103 miliardi di spesa sanitaria nel 2022 per un pro-capite di 2.221 €), occorre che altri contribuenti o il debito pubblico paghino ogni anno 50,4 miliardi. Sommando anche i 5.398.261 dichiaranti da 15 a 20 mila euro € lordi l’anno, che per l’effetto bonus-Tir si riducono a 4.936.319 versanti (il 12,84% del totale) e che pagano il 5,02% del totale Irpef, il 53,19% dei contribuenti pari a oltre 31,4 milioni di cittadini versa soltanto il 6,21% di tutta l’Irpef pari a 11,75 miliardi e forse una percentuale simile di altre imposte. Per garantire a questi quattro scaglioni la sanità occorrono 60 miliardi.

La salute è un diritto primario e irrinunciabile di ogni cittadino, ma di questo passo, se nessuno paga, altro che aumentare il numero di medici e infermieri (siamo agli ultimi posti della classifica per personale medico-infermieristico sul totale abitanti) o, come strilla l’opposizione, mettere più soldi (come sarebbe giusto) in sanità. Peraltro, siamo tra i pochi paesi che non hanno una legge sui fondi sanitari e solo una piccola parte degli oltre 43 miliardi di spesa out of pocket è intermediata dai fondi sociosanitari; siamo i più vecchi e non abbiamo una norma sulla non autosufficienza. Ci lamentiamo delle pensioni e penalizziamo la previdenza complementare.

E allora chi paga le tasse? Posto che il 53,19% versa il 6,21% dell’Irpef e quindi è totalmente a carico della collettività, che il 31,55% è pressoché autosufficiente su quasi tutte le funzioni salvo per l’assistenza, il grosso dell’Irpef è pagato dal 15,26% di contribuenti che dichiarano redditi da 35 mila euro in su e che si sobbarcano oltre il 63% dell’Irpef e quasi il 100% di tutte le restanti imposte dirette; questo sparuto “ceto medio” che, dichiarando da 35 mila euro in su, è fuori da tutte le agevolazioni salvo qualche bonus e una parte dell’Auuf. Possiamo andare avanti così?

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