Sinwar è morto, Hamas resta ma è trasformato

La caccia al terrorista si conclude a Rafah. Il gruppo non è finito, ma il negoziato è ribaltato e Netanyahu dice ai terroristi: risparmieremo chi lascia andare gli ostaggi. Il corpo del capo adesso diventa parte dell’accordo

Se di Yahya Sinwar rimarrà un’immagine precisa, non sarà quella del suo cadavere sotto le macerie, quella dei suoi denti nella bocca semichiusa, della testa spaccata, del corpo morto che non può più pensare piani criminali, ma sarà quella del suo corpo vivo, vivissimo, su un palco con un bambino in braccio mentre gli spinge addosso un fucile, promessa e condanna del martirio. Le immagini del cadavere di Sinwar sono uscite poco dopo che la notizia iniziava a circolare. Quando ormai la diceria si trasformava in sospetto e il sospetto in conferma, il corpo del terrorista era già pubblico, oggetto di studi, di confronti, di verifiche, prima che arrivasse il risultato del Dna, l’unico in grado di confutare ogni dubbio. Non sono stati i canali ufficiali a diffondere le foto, ma in qualche modo qualcuno ha deciso che Sinwar morto dovesse essere visto da tutti, quasi per vendetta delle vittime del 7 ottobre, il cui dolore, la cui morte, la cui tortura erano stati trasmessi in diretta, esposti al mondo, offerti agli occhi e al ludibrio dei sostenitori di Hamas. Ma è stato mostrato anche perché quel corpo adesso può avere un peso negoziale, può essere scambiato per gli ostaggi che da più di un anno sono prigionieri a Gaza. Yahya Sinwar è stato ucciso a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, dove durante l’estate l’esercito israeliano ha dato la caccia agli uomini meglio armati di Hamas.



Secondo molti analisti, Tsahal avrebbe dovuto fare irruzione a sud nelle fasi iniziali dell’operazione nella Striscia di Gaza: Rafah è la città che più ha beneficiato dei rifornimenti che arrivavano dal sud, dal traffico al confine con l’Egitto, più difficile da monitorare e che sarebbe stato meglio interrompere subito. Rafah è il rammarico di Tsahal e dei generali, ma da giovedì è il luogo in cui un’operazione per nulla pianificata ha portato all’uccisione di Yahya Sinwar. La dinamica è quanto di più comune possa esserci in una zona di guerriglia: un gruppo di terroristi ha aperto il fuoco contro i soldati, i soldati di fanteria, non forze speciali, che senza riferimenti da parte dell’intelligence, hanno risposto. Nulla nell’operazione lascia intendere che Tsahal fosse consapevole di essere a un passo da Sinwar, aveva le indicazioni che il capo di Hamas potesse trovarsi nella zona, ma non conosceva il punto esatto. Dopo un anno a dare la caccia a Sinwar, che è riuscito a muoversi all’interno della Striscia, il leader del gruppo è morto quasi per caso, in uno scontro a fuoco, non durante un’operazione pianificata nei minimi dettagli, è stato ucciso da dei soldati che non si immaginavano di trovarsi davanti l’uomo più ricercato della Striscia di Gaza, il fautore della guerra che si combatte da più di un anno e che ha aperto un fronte dopo l’altro, tutto attorno allo stato ebraico.



Sinwar è morto, Hamas rimane. Il suo uomo più in vista adesso è Khaled Meshaal, che avrebbe voluto prendere il posto di Ismail Haniyeh, quando era stato eliminato, lui sì, con un omicidio mirato mentre si trovava in un palazzo di Teheran gestito dai pasdaran. Meshaal, che già è stato leader dell’ala di Hamas che viene definita politica, era pronto a riprendere il suo posto, ma ha dovuto obbedire alla decisione di Sinwar, che ha accentrato nelle sue mani tutto il suo potere: quello militare e quello politico, togliendo ogni divisione tra le due frange di Hamas. Se esiste una differenza tra le leadership del gruppo nato nella Striscia non è tanto tra quella politica e quella militare, ma tra quella interna e quella esterna: tra chi era rimasto a Gaza e chi invece aveva preferito trasferirsi in Qatar o in Turchia. Per Sinwar, che mai sarebbe stato disposto a lasciare la Striscia, questa differenza era fondamentale e dopo la morte di Haniyeh aveva deciso di escludere la leadership esterna, soprattutto perché non aveva mai apprezzato Meshaal, nato in Cisgiordania, in un villaggio non lontano da Ramallah e che sin da bambino aveva trascorso la maggior parte della sua vita tra il Kuwait e il Qatar: per uno nato a Khan Younis, a Gaza, come Sinwar, Meshaal era uno straniero, non degno di guidare Hamas. Sinwar aveva iniziato la costruzione dell’asse con l’Iran e l’aveva portata avanti trasformandola in un’alleanza vincente che aveva consentito al gruppo di crescere e di arricchirsi, di aggiungere i missili di Hezbollah e degli Houthi in sincrono alla sua guerra contro Israele. Meshaal è molto più vicino al Qatar, non meno pericoloso dell’Iran, ma per Sinwar meno utile.



La leadership di Hamas può ricostruirsi, è una coda di lucertola sempre pronta a rinascere, ma è difficile riprendersi dalla fine di Sinwar, i cui piani militari ora sono detenuti da suo fratello Mohammed, che nel 2006 aveva rapito Gilad Shalit, il soldato israeliano per la cui liberazione Israele fu pronto a scarcerare più di mille terroristi, incluso Yahya. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto al gruppo che è il momento di arrendersi, di lasciar andare gli oltre cento ostaggi che sono ancora nella Striscia, vivi o morti. Ha detto ai palestinesi di approfittare di questo momento per cambiare le cose. Anche a nord, Hezbollah ha ricevuto un messaggio: legare la sua sorte a quella del gruppo nella Striscia non è più così scontato, ora che Hamas ha perso il suo leader.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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