Il mistero della povertà: aumenta tra gli occupati e diminuisce tra i disoccupati

I dati dell’Istat mostrano che i poveri assoluti restano sempre 5,7 milioni (il triplo rispetto al 2005) e non scendono neppure dopo l’aumento di 1,65 milioni di occupati. Anzi, la povertà sale tra chi lavora e scende tra chi non lavora (nonostante il taglio del Rdc). Spiegazioni?

Nel 2023 in Italia c’erano circa 2,2 milioni di famiglie (8,4% del totale) e quasi 5,7 milioni di individui (9,7%) in povertà assoluta: un dato “sostanzialmente stabile rispetto al 2022” dice l’Istat, anche se in realtà si registra un leggero aumento in valore assoluto (20 mila poveri in più). Pare che contro l’esplosione della povertà, che nell’ultimo ventennio è triplicata passando da 1,9 milioni a 5,7 milioni di individui, non ci sia una cura efficace.

Neppure il buon andamento del mercato del lavoro (+2,1% di occupati nel 2023) è servito, dato che il possibile effetto positivo è stato più che compensato dall’effetto negativo dell’inflazione: con un aumento dei prezzi al consumo del 5,9%, che però è più pronunciato per le famiglie più povere (+6,5%), la spesa per consumi del 20% più povero si è ridotta dell’1,5%. In sostanza, nonostante la leggera crescita economica e il più deciso aumento occupazionale, non è cambiato niente: l’incidenza della povertà è rimasta al 9,7% (uno su dieci) e anche l’intensità della povertà (cioè “quanto poveri sono i poveri”) non si è mossa dal 18,2%.

Sotto questa apparente stasi, però, ci sono dei sommovimenti. La povertà aumenta al nord (specialmente al nord-ovest) e al centro, mentre diminuisce al sud dove scende sotto ai livelli del 2021: il 38,7% delle famiglie povere risiede nel Mezzogiorno (era il 41,7% nel 2021) e il 45% al nord (era il 42,6 nel 2021). Stessa dinamica per l’intensità di povertà: è stabile a livello nazionale, ma diminuisce nel Mezzogiorno mentre aumenta al nord e nel centro. Un’emergenza strutturale è la povertà minorile, che sale al 13,8% (un tasso più che doppio rispetto agli over 65: 6,2%). I poveri si concentrano soprattutto nelle famiglie numerose e straniere. Se si guarda all’incidenza per cittadinanza, la povertà è rimasta costante tra le famiglie di italiani (6,3%) mentre è aumentata in quelle di stranieri (dal 28,9% al 30,4%). E questo, data la presenza maggioritaria di stranieri al nord, può spiegare l’incremento della povertà nel Settentrione.

Ciò che, invece, è difficile spiegare è l’andamento della povertà per condizione professionale. Se si guarda al biennio 2021-2023, l’incidenza della povertà è aumentata per gli occupati (dal 13,8% al 16,5% per operai e assimilati; dal 2,2% al 2,8% per quadri e impiegati), mentre è diminuita per i disoccupati (dal 22,7% al 20,7%). Un trend che mal si concilia con una fase di espansione economica e occupazionale: con 1,65 milioni di posti di lavoro in più in due anni, la povertà è leggermente aumentata in generale ed è aumentata in particolare tra gli occupati.

In teoria può dipendere dall’inflazione, come dice l’Istat. Ma l’aumento dei prezzi colpisce allo stesso modo, se non di più, gli inoccupati: eppure in questo gruppo la povertà diminuisce. E nonostante la politica fiscale del governo sia andata in direzione opposta: da un lato Meloni e Giorgetti hanno ridotto i trasferimenti a chi non lavora (taglio del Reddito di cittadinanza), dall’altro hanno tagliato incisivamente le tasse a chi lavora (decontribuzione).

L’aumento dell’occupazione non fa diminuire la povertà, mentre con il taglio dei sussidi diminuisce la povertà tra i disoccupati. Com’è possibile? E’ difficile far incastrare i pezzi, sociologi ed economisti riescono a comporre il puzzle?

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali

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