Dalle piazze ai campus, Sinwar era l’eroe delle folle antisemite occidentali

Da Seattle a Malmö, il leader di Hamas era riuscito a conquistare cuori e menti di un pezzo di occidente: “Sinwar ti amiamo, non lasceremo che tu muoia”. Se Israele non lo avesse eliminato, sarebbe finito come Marwan Barghouti, l’architetto della Seconda Intifada scambiato per un Mandela dai giornali italiani

Yahiya Sinwar aveva trovato l’arma con cui sconfiggere gli ebrei e manipolare il mondo: la morte dei suoi stessi connazionali. Invita gli ebrei a uccidere il suo popolo e gli israeliani non possono sottrarsi nella lotta contro Hamas. Sinwar sapeva come stremare gli ebrei, ricattarli e metterli gli uni contro gli altri”. Così ha scritto il romanziere olandese Leon de Winter, figlio di sopravvissuti alla Shoah, in un articolo per la Neue Zürcher Zeitung. Sinwar aveva trovato anche un modo per conquistare cuori e menti di un pezzo di occidente. Per loro non era il “macellaio di Khan Younis”, che uccise una dozzina di “collaborazionisti” d’Israele con la keffiah o seppellendoli vivi, ma una sorta di idolo inconfessabile, come Ismail Haniyeh, per i giornali italiani “il figlio di pescatori”. E’ la “primavera di Sinwar” di cui parla lo storico del nazismo Jeffrey Herf. Il volto di Sinwar non era una presenza soltanto a Sanaa o a Teheran. Ai primi di settembre, il volto di Sinwar adornava le bandiere a una grande manifestazione anti israeliana a New York, assieme a quello del capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, Ahmed Saadat. Dietro la folla pro Sinwar non soltanto Samidoun, il movimento islamico, ma anche gruppi di studenti americani. Come quello che alla Columbia ha organizzato le tende a primavera e che ha elogiato l’“Alluvione al Aqsa”, il nome scelto da Sinwar per il 7 ottobre. Alla Columbia, un ragazzo biondo stava in piedi con un cartello che recitava “Il prossimo obiettivo di Al Qassam” con una freccia che indicava il piccolo gruppo di studenti ebrei che stava tenendo una contro manifestazione alle sue spalle.

A Seattle, lo slogan pro Sinwar è stato: “I prigionieri di ieri sono i leader di domani” (Sinwar è stato diciotto anni nelle carceri israeliane). A Malmö, in Svezia, i manifestanti hanno marciato (con Greta Thunberg) gridando “Sinwar non ti lasceremo morire”. Ci mancava soltanto una felpa con la faccia di Sinwar in vendita su Amazon assieme a quella “Gays for Gaza”.

Fra gli slogan gridati alla Columbia University ci sono: “Radere al suolo Tel Aviv” e “Hamas, ti amiamo”. Un sondaggio Harvard-Harris ha rilevato che il 51 per cento degli americani tra i 18 e i 24 anni vuole “l’abolizione di Israele e la sua consegna ad Hamas”.

I dimostranti all’Hunter College di New York hanno mostrato simboli di Hamas e Hezbollah e brandito un ritratto di Sinwar. Dal memoriale della Shoah di Parigi alla porta di casa della direttrice del Brooklyn Museum, Anne Pasternak, gli attivisti hanno usato il triangolo rosso rovesciato, usato dalle brigate di Hamas per indicare gli obiettivi militari di Hamas.

Una specie di svastica politicamente corretta. E quanti commentatori ed editorialisti occidentali che hanno accostato il nome di Sinwar a quello di Benjamin Netanyahu, a insinuare che gli ostaggi erano ostaggi di entrambi, che pari sono.

Se Israele non lo avesse eliminato e se Sinwar fosse uscito da Gaza con un accordo con Gerusalemme, il leader di Hamas sarebbe finito come Marwan Barghouti, l’architetto della Seconda Intifada scambiato per un Mandela dai giornali italiani, cinque ergastoli da scontare in Israele e che in Francia, in cittadine come Valenton, si è visto persino intitolare un “viale Marwan Barghouti”. “Deputato palestinese, resistente, arbitrariamente imprigionato in Israele”. Allora forse Sinwar avrebbe potuto uscire dai tunnel di Gaza, liberare gli ostaggi e andare a insegnare alla Columbia University. Titolo del corso: “Contestualizzare i pogrom”. Non sarebbe stato meno assurdo di “Decolonial-Queerness & Abolition” insegnato da uno degli accademici del campus di New York che aveva detto: “Io sto con Hamas”.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.

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