Le lezioni dei Nobel per l’economia non alimentano ottimismo sull’Italia

“Perché le nazioni falliscono” è il libro di Daron Acemoglu e James Robinson che spiega perché nel corso dell’intera vicenda umana, alcune comunità o nazioni abbiano prosperato economicamente e altre no, anche a parità di caratteristiche geografiche e di dotazioni naturali

Il premio Nobel per l’economia a Daron Acemoglu e ai suoi sodali e coautori Simon Johnson e James Robinson, sul cui significato e sulle cui implicazioni il Foglio si è estesamente diffuso ieri, dà lo spunto per molte riflessioni che concernono da vicino il nostro paese. Ne vorrei qui proporre una. Fra i libri fondamentali scritti dai premiati ce n’è uno uscito in Italia nel 2013, con autori i soli Acemoglu e Robinson (A&R) e col titolo “Perché le nazioni falliscono” (ilSaggiatore), pure ampiamente commentato ieri. Un libro serenamente divulgativo, difficile e lungo ma chiaro, nella migliore tradizione della divulgazione alta che si pratica negli Stati Uniti. Il libro ambisce a fornire la spiegazione ultima del perché, nel corso dell’intera vicenda umana, alcune comunità o nazioni abbiano prosperato economicamente e altre no, anche a parità di caratteristiche geografiche e di dotazioni naturali. La spiegazione offerta sta nella qualità delle istituzioni nazionali costruite nel tempo e dei processi politici che le hanno generate.

Non mi soffermo sui concetti di istituzioni estrattive oppure inclusive, ne hanno già parlato altri. In un capitolo del loro libro A&R descrivono l’essenza dello sviluppo economico. Il titolo stesso del capitolo la riassume così: “Come farsi venire un’idea, fondare un’impresa e ottenere un prestito”. Una frase di disarmante semplicità, che però chiama in causa tre complessi sistemi che connotano una nazione: il sistema d’innovazione, quello di governo d’impresa e societario, quello finanziario. L’assunto è che possano svilupparsi solo quelle nazioni dove: 1) idee imprenditoriali nuove – basate su una scoperta scientifica, o su un diverso adattamento tecnologico di una scoperta preesistente, o anche solo su una novità commerciale – trovino terreno fertile nelle università, nei centri di ricerca, nei laboratori privati e pubblici; 2) dove creare dal nulla un’impresa sia favorito dal costume sociale e politico, dall’ordinamento giuridico, dalle svariate autorità che vigilano sull’interesse pubblico; 3) dove, una volta che l’idea sia stata partorita, il sistema finanziario sia pronto a sostenerne la trasformazione in un business redditizio, se l’idea viene giudicata minimamente meritevole sulla base del suo potenziale di mercato, non solo della reputazione personale dell’imprenditore (che potrebbe essere nulla se l’imprenditore è un giovane sconosciuto!). In Italia siamo messi maluccio su tutti e tre i fronti.

La principale fabbrica delle idee innovative (l’università) è appesantita, come spesso viene ricordato, da scelte punitive di allocazione delle risorse pubbliche, da vincoli legali, da gravami burocratici e ideologici. Poi, la fabbrica delle nuove imprese è ostacolata da ritardi culturali del costume nazionale, dall’ordinamento giuridico, dal comportamento delle autorità pubbliche. Infine, la fabbrica della finanza, in particolare di quella (non bancaria) per le imprese nascenti, è strutturalmente piccola e intrecciata con le banche. I difetti del sistema d’innovazione discendono al tempo stesso dalla struttura economica e da scelte politiche. I laboratori privati in cui si fa ricerca e sviluppo sono pochi e di dimensione limitata, perché le grandi imprese che li ospitano sono poche e di dimensione limitata rispetto alle concorrenti estere. Dal canto loro, le università, prevalentemente pubbliche, non premiamo i talenti: le retribuzioni degli insegnanti sono uniformi e basse, siano essi dei premi Nobel o dei semplici portaborse, perché sono imposte dalle norme sull’impiego pubblico.

Le scuole di dottorato, dove dovrebbero coltivarsi le migliori intelligenze di ricerca che la nazione sa esprimere, sono spesso soltanto la porta d’accesso all’impiego pubblico nell’insegnamento universitario, dunque sono governate da criteri burocratici che poco hanno a che vedere con la ricerca alla frontiera del sapere. Inoltre, leggi, regolamenti e prassi che guidano nascita e morte delle imprese sono tuttora informati da un radicato pregiudizio vecchio di cent’anni, secondo cui il mercato e i suoi soggetti (le imprese) sono sempre sospettabili di malversazioni ai danni dei malcapitati cittadini. Da ultimo, anche se si superano gli ostacoli disseminati dall’ordinamento alla nascita di un’impresa, questa spesso o non nasce o non sopravvive a causa della indisponibilità di finanziamenti. In Italia scarseggiano i “capitalisti di ventura” locali che studiano e rischiano, e quelli esteri in Italia s’affacciano poco, per la vischiosità dell’ambiente istituzionale e di mercato. Se hanno ragione A&R, c’è di che essere pessimisti sul destino di lungo termine del nostro paese.

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