Dall’assassino di Rozzano a Lytton Strachey. Spettacolarizzare la morte ci porta a sopravvalutarla quando arriva

“Quando ho scoperto che era morto, non è stato un gran che”, ha detto Daniele Rezza, l’omicida di Manuel Mastrapasqua. Rispetto all’enorme attenzione mediatica che le attribuiamo, dagli applausi ai funerali alla passione per il true crime, la morte reale ci appare deludente

Le parole dell’assassino di Rozzano – “Quando ho scoperto che era morto, non è stato un gran che” – ricordano quelle pronunziate da Lytton Strachey negli ultimi istanti di vita: “Se questa è la morte, allora non è un gran che” (nell’originale, “I don’t think much of it”). Di ultime parole c’è una fiorente antologia, dall’enigmatico “Più luce” di Goethe all’“Armeno moro guarito” di Petrolini, passando per il mitologico “Me ne vado, ma si può dire anche me ne vo” del lessicografo Basilio Puoti o per l’“Es ist gut” di Kant, che i manuali traducevano con un solenne “È cosa buona”, ma che credo suonasse più come un “vabbe’”.

Le ultime parole di Lytton Strachey hanno a mio avviso il pregio di spostare il baricentro dell’attenzione: se le altre citazioni servivano a eternare in extremis una caratteristica del parlante (l’ambizione, l’ironia, l’erudizione, lo stoicismo), dire che la morte non è un gran che significa concentrarsi sulla sua miserevole portata fisiologica, un po’ ripugnante e molto ingombrante, finale giocoforza deludente se comparato a qualsiasi vita. Forse, nella sua irritante rozzezza, l’assassino voleva dire qualcosa del genere: viviamo in un periodo di spettacolarizzazione della morte, dagli applausi ai funerali alla passione per il true crime, tale per cui, quando davvero la incontriamo nel concreto, ci accorgiamo che non è un gran che. Sia la nostra o l’altrui, alla fine scopriamo sempre che la morte è sopravvalutata.

Di più su questi argomenti:

Leave a comment

Your email address will not be published.