Sul voto Usa si allunga l’ombra della benzina

Da Eisenhower a Obama, così il costo del carburante ha influenzato le elezioni presidenziali in America. Lo farà anche a novembre

Nella corsa alla Casa Bianca ci sono molti dati economici che possono essere decisivi per spostare l’elettorato dalla propria parte. Inflazione, produzione industriale, previsioni sul Pil, tassi dei mutui e prezzi delle case, tanto per citare i numeri macroeconomici più attesi. Poi c’è il dato mensile sulla disoccupazione considerato da sempre il killer dei presidenti in carica. Se per un americano è difficile trovare lavoro non c’è successo in politica estera che ti salvi dalla sconfitta alle urne. La disoccupazione costò secondo i più la rielezione a Gerald Ford nel ‘76 e fu determinante anche nell’ultima tornata del 2020. Donald Trump si vanta ancora oggi di aver portato la disoccupazione al minimo storico, era il febbraio 2020. Bastarono appena otto settimane di pandemia e quel dato passò dal record positivo a quello negativo (14,8 per cento ad aprile 2020), aiutando i democratici a riconquistare il 1600 di Pennsylvania avenue qualche mese dopo.

Ma c’è un altro numero che influenza l’America profonda, quella che ogni mattina monta su pick-up di grossa cilindrata per portare i figli a scuola e poi andare a lavorare. E’ il costo del carburante che si legge ogni giorno sulle pompe di benzina: il sangue giallo-verdastro che fa circolare l’economia statunitense trasportando merci da un capo all’altro del paese e che è anche l’anima di ciò che per gli americani rappresenta da un secolo a questa parte l’idea stessa di libertà, l’automobile.

La benzina a basso costo, che consente da sempre di attraversare la nazione senza badare troppo ai consumi, è considerata quasi un diritto, un po’ come il caffè dalle nostre parti. In quasi tutte le grandi città che visitiamo d’estate lo pagano dai 3 euro in su, ma se in Italia il prezzo dell’espresso sale di qualche centesimo sopra la media guardiamo storto il cassiere e andiamo a caccia di un bar dove la pausa caffè non costi più di un euro e venti. Vale la stessa cosa per la benzina dall’altra parte dell’oceano e come dargli torto visto che per mezzo secolo gli americani sono stati abituati a pagare la verde appena qualche centesimo al litro. Per decenni il prezzo di un gallone di carburante ha oscillato tra 1 e 1,50 dollari. Con Joe Biden si sono toccati per la prima volta i 4 dollari al gallone, apriti cielo.

Se contiamo che un gallone contiene ben 3,8 dei nostri litri il pieno di un pick-up Ford F 150, la macchina più venduta negli Usa nel 2023 con un serbatoio grande come quello di tre Fiat Panda messe insieme, vi costerebbe 90 euro scarsi al cambio odierno. In Italia non vi basterebbero 150 euro.

Di studi sul rapporto tra costo della benzina ed elezioni politiche nell’anno delle presidenziali se ne trovano diversi in rete. L’Università di Pretoria ad esempio ha creato un modello matematico utilizzando il machine learning, arrivando alla conclusione che l’effetto negativo del prezzo del carburante è costante nella storia ma l’impatto sul voto varia da elezione a elezione. Una ricerca di Standard & Poor’s, elaborata su 30 anni di governo negli Usa, è arrivata alla conclusione che un aumento della benzina di 10 centesimi al gallone equivalga in media a una perdita di popolarità per il presidente in carica dello 0,60 per cento. Non esattamente bruscolini se a decidere il voto sarà, come nel 2020, qualche centinaio di migliaia di schede. Secondo gli analisti il 2024 è infatti uno di quegli anni in cui molti elettori potrebbero cambiare idea mentre rabboccano il serbatoio per andare al seggio il prossimo 5 novembre.

Eppure un presidente può fare molto poco per contenere il caro carburante nonostante gli Stati Uniti siano diventati il più grande produttore mondiale di greggio (grazie alla contestata frantumazione idraulica del sottosuolo rilanciata da Obama prima e Trump poi). Le accise sulla benzina ad esempio, che servono anche negli States per finanziare il mantenimento di strade e viadotti, le decidono i singoli stati. Per la cronaca le più care le ha la California: 68 centesimi di imposte su ogni gallone contro i 9 scarsi dell’Alaska, che ha le tasse sul carburante più basse della nazione. Chi può influenzare invece i prezzi prima delle elezioni è l’Opec, l’Organizzazione dei paesi produttori di petrolio, che durante l’estate però non ha impedito al Brent di toccare i minimi da due anni a questa parte.

Secondo Moody’s il barometro elettorale in vista di novembre oscilla fra 4 e 3 dollari al gallone, dove con il 4 le speranze dei democratici di restare al potere sarebbero nulle. Se lo slogan per spiegare l’elezione di Bill Clinton nel ‘92 fu “It’s the economy, stupid!”, per altre vittorie potremmo sostituire l’economia con la benzina. Barack Obama ne sa qualcosa.

Nella campagna del 2012, quando il carburante costava più di oggi, un sondaggio Gallup mostrò come solo l’un per cento degli elettori considerava il rincaro un fattore determinante. Alla sua prima elezione invece, nel 2008, tirava tutta un’altra aria. Lo stesso sondaggio diceva che ben il 25 per cento degli elettori poneva il prezzo del carburante in testa ai problemi economici da risolvere.

La nostra memoria collettiva è spesso edulcorata dal racconto che costruiamo attorno ai nostri ricordi. L’elezione di Obama è passata alla storia come uno straordinario successo costruito sul giovane professore afroamericano con il sogno di un paese e di un mondo più giusti. Obama fece allora un efficacissimo uso dei social media con migliaia di volontari che batterono porta a porta gli stati chiave portando il messaggio della possibilità di un mondo migliore dopo gli anni terribili delle guerre in Afghanistan e Iraq (nella New York liberal di allora le tazze celebrative dell’ultimo giorno di mandato di George W. Bush si vendevano a pacchi).

Per quanto più prosaica, la realtà che ricorda chi da giornalista ha raccontato quegli anni da una redazione americana è che a far eleggere Obama alla Casa Bianca furono il fallimento di Lehman Brothers cinquanta giorni esatti prima delle elezioni e il prezzo record della benzina nell’estate del 2008, molto vicino ai fatidici 4 dollari al gallone citati da Moody’s. Prima del crollo della banca d’affari newyorchese John McCain, infatti, era avanti nei sondaggi di cinque punti sul senatore democratico, con buona pace dei corsi di marketing politico che ancora oggi ci raccontano che uno slogan azzeccato come “Yes, we can” basti da solo a trascinare le folle.

Il costo della benzina oggi potrebbe aiutare Kamala Harris o meglio tenere aperta la partita insieme alle sue speranze di vittoria. Dopo l’estate di ribassi del petrolio oggi la verde regular costa negli Stati Uniti 3,2 dollari al gallone circa, molto vicino al numero magico di 3 dollari. Appena due anni fa, nel pieno dell’offensiva russa in Ucraina, Joe Biden ha visto il prezzo del carburante frantumare record negativi uno dietro l’altro. E anche questo non ha giovato alla sua popolarità in vista della ricandidatura.


Andando indietro nel tempo gli esempi non mancano. Chi ha sacrificato sull’altare del carburante il suo secondo mandato fu ad esempio Jimmy Carter, vittima della crisi petrolifera degli anni 70. Alla fine della sua presidenza, nel 1980, un pieno di benzina costava il doppio di quando era entrato in carica.

Pochissimi giorni prima di quell’elezione, alla fine di un duello televisivo diventato un classico della tv, Ronald Reagan si rivolse così agli elettori: “Quando andrete a votare chiedetevi se state meglio oggi di quattro anni fa”. Quel famoso “Are you better off today?” significava anche che andare in ufficio non poteva costare a un lavoratore un occhio della testa e che viaggiare in auto per il proprio paese non poteva essere un lusso. “Ogni uomo con un lavoro decente dovrebbe potersi permettere un’auto”, diceva il padre fondatore dell’industria automobilistica, Henry Ford, sottintendendo che anche ciò che serve a muovere un’auto dovrebbe essere altrettanto economico.


I desolati distributori del Midwest e le lunghe strisce di asfalto che attraversano i parchi dell’Arizona puntando all’orizzonte hanno intriso di benzina la cultura statunitense del ‘900, facendo dell’automobile la parafrasi industrializzata della corsa a cavallo nel vecchio west.

“Dove andiamo amico? Non lo so ma dobbiamo andare” è una delle battute cult di “Sulla strada”, icona della Beat Generation che ha trasformato il viaggio in macchina in un simbolo del passaggio all’età adulta, una lunga ricerca di sé e della propria meta che si ferma solo davanti all’Oceano Pacifico.

Stando ai dati del dipartimento per l’Energia un pieno della Hudson Commodore guidata nel ‘51 da Sal Paradise (alter ego di Kerouac nel libro) costava appena cinque dollari. Per inciso un modello di quell’auto lo trovate, volutamente impolverato come se avesse appena finito di attraversare il deserto, al Beat Museum di San Francisco.


Libri e cinema hanno cristallizzato nell’inconscio collettivo a stelle e strisce il viaggio in macchina come baluardo di libertà accessibile a chiunque. Da “Easy rider” a “Taxi driver”, passando per i maestosi pick-up delle serie tv, per l’angosciante thriller di Steven Spielberg “Duel”, per il viaggio di ritorno a cercare in cosa credevamo da ragazzi di “Fandango”, o dalla intoccabile Buick decappottabile di “Rain Man”, fino al più recente “Green book” dove un viaggio in auto riesce ad abbattere persino gli stereotipi razzisti di un autista bianco. Il salto nel vuoto dell’ultima scena di “Thelma e Louise” è forse l’estrema sintesi del senso di libertà che l’auto imprime nella mente degli americani da un secolo esatto a questa parte.

Questa cultura di viaggio e di distacco, che ancora oggi consente a milioni di persone di cambiare stato e lavoro attaccando alla propria vettura un carrello con dentro pochi mobili e qualche scatolone, risale agli anni 20 del secolo scorso. La nascita del sistema stradale federale è del 1926, appena quattro anni dopo il Federal Aid Highway Act che finanziava la costruzione delle Interstate, la rete di strade che all’alba dell’industria automobilistica doveva unire gli Stati Uniti da costa a costa. Ivi inclusa la leggendaria Route 66 che l’11 novembre del 2026 compirà cento anni. Se vi interessasse il genere per l’occasione ci saranno decine di carovane celebrative ed eventi in ogni stato (a creare la commissione per il centenario è stato Trump pochi giorni prima di lasciare la Casa Bianca). Jack Kerouac probabilmente non vi avrebbe partecipato ma non tutti i viaggi devono essere per forza romantici allo stesso modo.

Oltre al mito c’è poi l’economia reale che negli Usa si muoverà ancora per molti anni su gomma. Nel 2023 il dipartimento dei Trasporti ha calcolato che i camion statunitensi hanno trasportato su strada beni per la bellezza di 12 miliardi di dollari. I trasporti ferroviari valgono meno di un trentesimo di quella cifra e nelle proiezioni ufficiali il divario sarà lo stesso nel 2050, se non maggiore.

Se il trasporto su gomma, e non quello su rotaia, è diventato l’ossatura portante dell’economia statunitense lo si deve a Dwight Eisenhower, anche se lui vedeva nelle strade asfaltate prima di tutto un essenziale strumento militare. Durante il suo comando in Europa nella Seconda guerra mondiale era rimasto abbagliato dal sistema stradale tedesco che aveva consentito i rapidi spostamenti delle truppe naziste. Inoltre pensava che le nuove strade americane avrebbero consentito di evacuare le città in caso di attacco atomico. E’ per questo che negli anni 50, sotto la sua presidenza, il nome dato alla rete stradale Usa era Interstate and Defense Highways, poi abbreviato in Interstate.

Eisenhower è stato uno dei primi presidenti ad aver guidato un’auto elettrica, i suoi suoceri comprarono una Rauch & Lang nel 1914 per l’equivalente di 135 mila dollari odierni.

Prima che la scoperta di nuovi giacimenti petroliferi rendesse le auto a benzina più convenienti e con maggiore autonomia, negli Stati Uniti del primo ‘900 le auto elettriche erano comuni almeno quanto lo sono oggi. Se lo saranno ancor di più in futuro dipenderà in buona parte dalle elezioni di novembre. Nonostante l’appoggio del magnate dell’elettrico Elon Musk, Trump infatti ha assicurato che difenderà l’industria automobilistica dalla concorrenza dei veicoli a batteria. Nel 2019, al contrario, Harris propose di investire 10 miliardi per azzerare i veicoli a combustione entro il 2035 ma da quando ha preso il testimone da Biden la sua linea si è molto ammorbidita. Alla fine le elezioni quest’anno potrebbe deciderle la patria dell’industria dell’auto americana, il Michigan. Meglio non giocare col fuoco quando si parla di motori a benzina.

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