Salvini a Pontida. Va, pensiero con Orbán e Vannacci. Nasce la Lega Evola, la destra esoterica

Vannacci si prende la scena, il leader ungherese dice “occupiamo Bruxelles”, Salvini si scaglia contro le banche e la cittadinanza di Tajani. E’ finita la Padania

Pontida. La Lega lascia la Lega. Orban è il nuovo Miglio, il nero ha sostituito il verde, il “Va Pensiero” è “Va con Vannacci”. A Pontida, 6 ottobre 2024, la Lega si separa per sempre da un’idea, la Lega secede dalla Lega. Giorgetti viene “sacrificato” come l’agnello, Salvini canta “Generale” con il generale, e c’è nero, tanto nero, troppo nero. Ci sono le bandiere russe dove un tempo c’erano lo spadone, le Alpi e l’ampolla. Viktor Orban, ospite speciale, dal palco, dice che Bruxelles “va occupata, presa, e ci riprenderemo anche Varsavia”. Nasce la Lega Evola, l’esoterica, la Salvinutopia, la Lega santa con il mesciato olandese Gert Wilders al posto di Federico Barbarossa, il tokaj ungherese al posto del Valpolicella. Budapest è la prossima Lepanto e Varese più lontana di Samarcanda.

Si evoca lo spirito di “Tramp, Tramp”, come a via Gradoli si evocava lo spirito di Aldo Moro, il Trump “salvato dalla mano del Signore”, dice Salvini, mentre la maglia “basta euro” è il cimelio come la canotta bagnata di Mick Jagger. Abbiamo contato dieci “Tajani vaffanculo”, tre “Salvini ha i coglioni”, quattro “femministe, cazzo, dove siete?”, ed è questo il solo legame con le radici antiche, il ritorno della lingua steppa della Lega che sempre “ce l’aveva duro” e che “scorreggiava nello spazio”. 200 giornalisti invitati e cinquanta di questi partono da Bergamo ma con il bus sostitutivo, “causa lavori”. I trasporti sono l’ultima maledizione di Salvini: dove passa lui c’è un chiodo. Si arriva a Pontida con il cambio, ferro-gomma, a Ponte San Pietro, piccola stazione a due binari. Non c’è il pieno e per coprire i buchi del sacro pratone il militante Mauro ordina: “Sventolate, sventolate”. Viene sputacchiato Antonio Tajani dai ragazzi della giovanile leghista, da Alessandro Verri, povero Illuminismo!, capogruppo in consiglio a Milano, e Salvini chiede scusa, ma è solo scena: “Scusa Antonio, sono tre scemi”. Il lenzuolone del Veneto non si srotola, ed è il cattivo presagio, come se a Napoli non si sciogliesse il sangue di San Gennaro. Sono forse tre mila militanti, forse, e se non fosse per il baraccone Vannacci sarebbero ancora meno.

L’inviato delle Iene, Alessandro Sortino, con gli occhi spiritati, ungheresi, anche lui, gli imbocca il microfono e Vannacci gli risponde: “Lei ha fatto una colazione pesante”. Mostra i gradi, il premio, il rossetto della leghista Sonia, che lo bacia, e litiga con un simbolo della Lega di Varese, Elio Fagioli, un pezzo di album Lega nord, il solo che ha il coraggio di dirgli: “Lei, caro generale, non c’entra un cazzo con la Lega”. Fa il prezioso, perché sa di piacere, i giornali lo inseguono, “la star, la star”, lascia intendere che la tessera della Lega potrebbe prenderla, mentre dal podio straparla di “suolo”, si laurea storico, il Vannacci Galli della Loggia: “A Lepanto abbiamo sconfitto gli ottomani e consacrato la supremazia dell’Europa”; “siamo qui per il nuovo corso della Lega, siamo qui per l’onore”; “la cittadinanza è una eredità, noi non la svenderemo perché gli italiani l’hanno meritata sul Carso sul sacro suolo”. Salvini si è salvato grazie ai suoi voti ma ha arruolato uno strafatto di cavalleria austriaca, il generale che parla in terza persona e che chiede gli applausi “perché io sono rimasto nella Lega, credo nella parola data”. Anche quest’anno c’è l’elfo, un vecchio signor barbaverde, l’amuleto di ogni Pontida, e deve essere davvero un cambio d’epoca se anche lui, quando sente il nome Vannacci, si limita a dire: “Non parlo, Vannacci non l’ho assaggiato. Mi ha capito?”.

Manca Umberto Bossi e manca davvero all’alpino Dino Torti, affettuoso come un nonno, come manca a mezza Radio Padania, oggi Radio Libertà, la frequenza del direttore per sempre, Giulio Cainarca, e di Sammy Varin, lo speaker che per i leghisti vale più della “Zanzara” Cruciani. Per la prima volta, dopo trentatré anni, ministri, ospiti vengono introdotti da Mirko Mengozzi, voce ufficiale, che prende il testimone del Belotti, l’ex segretario della Lega Bergamo, che perdeva le corde vocali, a ogni edizione, e che per servizio, anche nel 2023, presentava Salvini così: “Il capitano, il solo capitano, l’unico, il nostro, Matteo? Chi? Matteo?”, e il popolo in coro “Salvini”. E’ il momento della nuova generazione, i boy scout di Salvini, come Luca Toccalini, “Toc, Toc”, che ha il privilegio di aprire Pontida e che potrebbe prendere la guida della Lega lombarda, se, spiegano i lombardi, “Romeo non rinuncia alla carica di capogruppo al Senato”. Sabato sera la Lega che conta ha mangiato la tinca al forno come Orban al ristorante Al Porto. Sono i nuovi saperi e sapori di Salvini condivisi con la vicepresidente austriaca di Fpo, Marlene Svazeck e i patrioti Petr Macinka, Ondrej Knotek. Chi sono? I leghisti sul sacro pratone ingoiano questa Lega Evola, come il bambino ingoia la medicina inevitabile, applaudono Orban che Giuseppe Mantegazza confessa di non conoscere e lo dice facendo pure spirito padano: “Scusate, sono un po’ orbo”. Ingoiano questo spelacchiamento punkofascio come il ponte sullo Stretto che per Livio Ghidelli è l’insopportabile tanto da scrivere, “meglio un palo nel retto, che il ponte sullo Stretto”. Quanti sono rimasti i Fagioli e i Ghidelli che possono dire a Salvini: “Salvini fa stronzate, si è circondato di fancazzisti, a volte serve dirlo, per aiutarlo”. E’ vero c’è, ancora, Luca Zaia, lui che in Veneto è stato eletto con il 77 per cento e in Piemonte resta Riccardo Molinari, il Mol, che riscalda il pratone parlando di autonomia. C’è anche il Calde, Calderoli, oramai un busto della Repubblica, e non più il leghista che diede dell’orango a una donna, la ministra Kyenge, un altro che non ci sta a farsi togliere l’autonomia, “perché i bergamaschi sono buoni ma non coglioni”. Il nuovo vicesegretario della Lega, Claudio Durigon, con un paio d’occhiali Valentino, da Settimana della Moda, non parla, ma lo stand della Campania è il suo vanto.

La mozzarella di bufala, qui, ha superato la polenta, la nduja calabrese si omaggia insieme a corone di peperoncino. I libri di Armando Siri sono in vendita insieme a quelli di Vannacci e Salvini, ma non sono ancora adottati a scuola come piacerebbe al ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, il trombone Valditara, che si esalta con frasi di, basso, livello: “L’egualitarismo grigio che massimizza le diseguaglianze”. E’ un altro folgorato dalla Lega Evola che piace al giovane Simone di Asti, 15 anni: “Un partito di destra, destra”. Stanno mutando nelle facce e nei vestiti, perché il vento, che sempre fiuta Salvini, è il levante che viene da est. Giubbini di pelle nera, chiodi, borchie, e a più di uno di loro parte il grido “Jawoll”. Dietro i banconi, a spillare birra, ci sono i vecchi leghisti, gente dura e composta che offre la Vecchia Romagna aggiunta nel caffè, i panda in via d’estinzione. Non è affatto vero che sono razzisti come non è vero che c’è un’inondazione di migranti, il concetto scaduto della destra, lo spinacio andato a male. Esiste l’altra Lega santa. Sono leghisti Massimiliano Fedriga, che ricorda le vittime israeliane del sette ottobre, lo è Attilio Fontana, salutato al grido “Attilio, il galantuomo”, che parla teneramente come il democristiano Mino Martinazzoli, è leghista Zaia, l’ultimo Catone: “Io mi batto contro l’equa divisione del benessere e non per l’equa divisione del malessere”. L’unica polo verde la indossa Giorgetti, il Cesare Pavese di Cazzago, costretto a spiegare le sue frasi a Bloomberg, “i sacrifici”, le tasse, e promettere che le tasse non le alza, “io so chi può fare sacrifici. Sono figlio di un pescatore e di una operaia tessile”. Tutti loro, Giorgetti, Fontana, Zaia, Fedriga, Molinari, annegano in questo sabba di invitati cechi e polacchi, brasiliani, c’è anche Bolsonaro con la sua cartolina alla Barbato. Salvini la chiama la Lega santa, ed è benedetta da Elon Musk, su X, ma è in verità il suo scapolare, l’ “aiutatemi voi, io rischio a Palermo la galera”. Il leader portoghese di Chega, André Ventura, lo definisce il “perseguitato”, così come Jordan Bardella, mentre il portavoce di Vox, uno che è il separato alla nascita di Salvini, il più esoterico, prepara “una unione che forma dighe di contenimento” e mescola il sacro cuore di Maria, vergine, con la scoperta dell’America, prima di salutare con “Adelante, adelante”. Wilders è l’innamorato, “Matteo ti amo”. Sono i perdenti di successo, la notte dell’Europa, e ripetono, come Salvini, “togliamo la cittadinanza a chi delinque”, ma al governo non ci vanno e Salvini può solo recitare Brecht, infuriarsi contro le banche, i banchieri “che devono pagare”. Mescolano lo spavento più grande dietro le panze, come Orban, il magiaro crasso, con il traduttore alla sua destra, salutato con “Riprenditi la Salis”. Bossi era becero ma Orban parla di sangue, di patto Roma-Budapest, perché la “libertà di italiani e ungheresi è insita nel sangue”, svuota le casse Ue ma minaccia perché “se ci puniscono, trasporteremo i migranti e li deponiamo a Bruxelles”, città che “va presa, occupata”. Nelle chat della Lega l’ordine è “dopo dieci minuti che parla Salvini ci si avvia verso il bus”. Smarriti, sabato sera, i delegati trumpiani vagavano per Ponte San Pietro, l’inviata di Orban si allontanava dal binario, causa leghista alticcio. No, non è la Lega santa, ma solo l’ultimo ballo di Salvini, il tamburo ungherese al posto del Nabucco, l’oh, mia Lega, si bella e perduta.

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  • Carmelo Caruso
  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio

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