“L’archivio è una sfida per l’immaginazione”. Stefano Graziani e il diritto all’illogico

La possibilità di sovvertire gli ordini prestabiliti, cercando nuove figurazioni e connessioni. L’arte come spazio privo di protocolli, un equilibrio tra forma e sensazione. “Non è funzionale, va costantemente reinventata”

Nome: Stefano Graziani

Luogo e data di nascita: Bologna 9 agosto 1971 (vive a Trieste)

Galleria di riferimento e contatti social: Galleria Mazzoli, Modena / Berlino

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L’intervista

Intervista realizzata in collaborazione con Anna Setola

Che cosa significa per te il concetto di archivio?

Gli archivi sono i luoghi dove è conservata l’evoluzione della cultura e del nostro sapere. Per cercare un dialogo con questi mi è sempre interessato costruire progetti fatti di frammenti che, se volessimo essere sistematici, o semplicemente ordinati e logici, non potrebbero stare nella stessa stanza o nello stesso libro.

Penso abbiamo un certo diritto all’illogico e all’azione e all’essere disfunzionali.

Negli archivi non è sempre facile cercare. Credo sia importante iniziare da ciò che già si pensa di conoscere e farsi guidare rimanendo attenti e disponibili agli incontri e alle scoperte. Molto spesso non siamo in grado di vedere ciò che non conosciamo. La sequenza delle fotografie in un libro, per esempio, mi permette di procedere non esclusivamente per serie di oggetti (fotografie) simili. Costruire una sequenza include la possibilità di concentrarsi su lavori singoli e la loro relazione con le altre fotografie. Ho lavorato in diversi archivi di diverse istituzioni, credo di aver sempre cercato di produrre nuove figurazioni, come potenziale nuovo senso al lavoro che stavo facendo partendo da oggetti che hanno un nome e una collocazione. Penso a Documents on Gordon Matta Clark personal Library (CCA 2021): fotografie dei libri appartenuti a Gordon Matta Clark, i libri che leggeva, che teneva sul comodino. Sono fotografati su un tavolo, con un orizzonte ed una riflessione su dell’acetato parzialmente riflettente. Credo siano nature morte che costruiscono un ritratto di Gordon Matta Clark attraverso quello che studiava, ciò a cui si interessava. Ad esempio, la Cultura del Peyote, l’architettura del rinascimento, i principi dell’urbanistica, l’arte africana, un sapere completamente trasversale che documenta e manifesta le attenzioni e i bisogni di conoscere. Quindi certo, mi interessano gli oggetti classificati e la possibilità che abbiamo di sovvertire e scomporre degli ordini prestabiliti, essere aperti e deistituzionalizzanti.

In che modo hai iniziato a fare l’artista?

Credo senza saperlo, a un certo punto ho semplicemente iniziato, volevo produrre delle fotografie e ho pensato al mio primo progetto, senza sapere cosa sarebbe diventato, se potesse veramente interessare a qualcuno o se qualcuno potesse mai pensare di esporlo. Ho cercato di andare il più lontano possibile da quello che avevo studiato fino ad allora. Poi è diventato il mio primo libro, Taxonomies, a+mbookstore 2006, e dopo una mostra, una serie di mostre. Per farlo ho viaggiato in Europa, in Cina, Israele, India, per fotografare quello che volevo vedere. Il libro contiene dei testi che non sono commenti al lavoro, rappresentano piuttosto una condivisione dello spazio editoriale. Sono testi di Rene Gabri, Stefano Boeri, Antonello Frongia. Poi ho continuato e credo di aver sempre cercato di pubblicare in forma di libro i miei lavori. Ho lavorato a Taxonomies per circa tre anni, ho moltissimo lavoro che fa parte di quel progetto e che non ho mai mostrato (questo, al contrario della prima domanda, è lo spettro dei nostri archivi). Però per l’ultimo progetto (Picture Window Frame, a+mbookstore 2024), che ho pensato assieme a Kathrin Oberrauch, sono tornato al Museo di Storia Naturale di Milano. Sono tornato perché mi interessava sapere quello che riuscivo a vedere ora, dopo molti anni, e capire se sono capace di cambiare e ripensare a ciò che ho già fatto.

Che cos’è per te lo studio d’artista?

Ho due risposte a questa domanda. In primo luogo, lo studio è dove mi trovo, di fronte a ciò che voglio guardare e fotografare, quando è possibile è all’aperto è esattamente dove voglio e posso andare. In secondo luogo, lo studio è dov’è possibile stare da solo e avere a disposizione i miei libri, i lavori conclusi o meno, dove posso passare del tempo a pensare, è uno spazio dedicato, non direi ordinato ma è uno spazio dove mi sento bene. Lo studio è a Trieste, che aggiunge una condizione remota di un luogo abbastanza difficile da raggiungere. Mi piace avere degli ospiti. Aggiungo che in questo momento non sono nel mio studio mentre rispondo alle domande.

Quali sono i tuoi riferimenti visivi e teorici?

I favolosi anni Settanta, quasi tutto, Moby Dick per la vastità del sapere ed Hermann Melville perché ha saputo cambiare nel corso della sua vita, Raymond Carver per l’assurdo, Babette Mangolte perché ha lavorato con dei performer e ha pensato alla fotografia in quanto documento, Franco Rella mentre scrive del Moderno, la musica di Ariel Pink, David Bowie, Lucio Dalla perché lavorava con Luigi Ghirri, Parini Secondo perché sono giovani e non so se capisco dove guardano per il progresso del loro lavoro, Harun Farocki per la devozione al linguaggio, Patti Smith per le canzoni, la militanza e perché posava per Robert Mapplethorpe. Lewis Baltz perché era un gentleman, ha cambiato il mondo e il modo in cui lo guardiamo, nel tempo sono riuscito a comprare tutti i suoi libri. Ma anche molti altri, tra cui la fotografia italiana, che ha una grande ricchezza che da vicino non vediamo. Mi interessa la fotografia come esperienza e come documento. Credo il documentario sia uno spazio aperto che ci permette di essere quello che vogliamo.

Che ruolo gioca il display espositivo nella tua pratica artistica?

Potrei provare a dire che il libro è il display grado zero, che la fotografia ha come luogo privilegiato il libro come forma finale del progetto. Il libro vive autonomamente dalle mostre, non è un catalogo è un progetto d’autore. Semplificando, anche una stampa appoggiata su un tavolo è la costruzione di un display o incorniciare un lavoro è un display. Però mi è successo di collaborare con diversi studi di architettura per ideare diversi display. Penso a Manifesta 7, il progetto a Mini museum for Franco Basaglia con il display di Kuhn Malvezzi, la mostra Questioning Pictures che ha curato Francesco Zanot all’Osservatorio Prada e Picture Window Frame che ha curato Cloe Piccoli alla Fondazione ICA con Office Kersten Geers David Van Severen, Mostra Fotografica, curata da Alessandro Dandini de Syla alla Fondazione Pescheria di Pesaro con Baukuh. Il display ha un ruolo fondamentale nel pensare la mostra. Mi riferisco anche a un progetto che ho co-curato, The Lives of Documents, Photography as Project, presso il CCA di Montreal e che coinvolgeva 30 artisti; il display dello studio di architettura Dyvik Kahlen ha costruito la forma della mostra, un paesaggio di tavoli di ricerca che costruivano nuove prossimità di lavori che potevano guidare (o non guidare) lo spettatore nello sviluppo della mostra.

Com’è organizzata la tua giornata?

Se sono a Trieste è molto semplice: sveglia alle 6.55, preparo la colazione a mia figlia, poi vado in studio, poi preparo il pranzo e il pomeriggio sono a casa o di nuovo in studio. Mi piace cucinare, quindi un po’ di tempo è dedicato a quello. Tralascio coda alle poste, spesa e altre cose. Poi faccio lunghissimi giri in vespa (PX 150). D’estate a volte vado a fare il bagno al mare. Quando non sono a Trieste per lavorare e se sono a Milano direi un passaggio da Commerce verso le 18.30.

Cosa ti interessa nel rimuovere il contesto informativo dalle immagini e che effetto pensi abbia sullo spettatore?

Credo che la fotografia mi interessi in quanto linguaggio documentario, che ha un legame stretto con quello che mostra e allo stesso tempo ci chiede di staccarci da quello che vediamo (forma e significato) per astrarci e comporre una figura. È un equilibrio tra forma, logica e sensazione. Per la costruzione dell’autorialità mi interessa indagare i canoni, i cliché, e possibilmente corromperli per trovare un’autonomia dalle regole.

Qual è la funzione dell’arte oggi?

Io non so rispondere, nemmeno nel passato, però la condizione illogica mi interessa, l’arte non può essere funzionale, va costantemente inventata, è priva di protocolli.

A che cosa stai lavorando?

Sto collaborando con una tuffatrice, mi interessa la presenza del corpo nello spazio e la possibilità che ci dà per descrivere lo spazio che occupiamo. Mi interesserebbe pensare a un lavoro dove appaia anche Eadweard Muybridge. La fotografia Il salto di Yves Klein è del 1960 ed è uno dei punti di partenza per un nuovo progetto a Bolzano nella prossima primavera. Penso che i progetti non siano mai veramente conclusi.

Le opere

Stefano Graziani, Funghi giapponesi, Tokyo 2017.

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Stefano Graziani, Zucche, Vancouver 2022

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Stefano Graziani, The Peyote Cult, Weston La Barre, Schoken Books, 1972, Gordon Matta Clark Personal Library, Canadian Centre for Architecture, Montreal 2020.

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Stefano Graziani, John Baldessari, Throwing three balls in the air to get a straight line, 1973, 12 photographic plates, 2021

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Stefano Graziani, 21 giugno 2024, Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala, Milano, 2024

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Stefano Graziani, Natura morta, Trieste, 2024

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Stefano Graziani, Margherita G. Ritratto di profilo, 2023

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Stefano Graziani, Roses (A Mini Museum for Franco Basaglia), 2022

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Stefano Graziani, Tuffatrice, Trieste, 2024

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Stefano Graziani, Natura morta con pappagalli, Studio Mumbai, Mumbai 2018.

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