“Elizabeth” ci ricorda che solo con i cattivissimi ci divertiamo davvero

Il romanzo di Ken Greenhall mette al centro una ragazza libera da imperativi morali. Tra orrore ed erotismo, la lezione da imparare è che l’amore può essere distruttivo quanto l’odio

“Finalmente una giovane stronza. Libiamo ne’ lieti calici: era ora! Si chiama “Elizabeth” e il romanzo che ne racconta la storia è pubblicato da Adelphi (177 pp., 17 euro) e firmato da Ken Greenhall, scrittore nato a Detroit nel 1928. All’epoca lo pubblicò con uno pseudonimo, cioè il nome da nubile della madre, Jessica Hamilton.

Andiamo al punto: travolti dall’idea che un personaggio femminile o è edificante o non è, ci eravamo del tutto dimenticati la trazione integrale dei cattivissimi, e il fatto che è solo in loro compagnia che sulla pagina ci si diverte davvero. Dopo aver spasimato tra le pareti di legno di tutte queste cartolerie gestite da vedove giapponesi negli angoli dimenticati di Tokyo mentre fuori piove, dopo aver ordinato la cioccolata calda del giovedì nel piccolo locale alla fine del rorido viale di ciliegi in cui si siede solo chi lo conosce perché ha tre tavoli e non si fa pubblicità, consumata tutta l’epica della malattia, della forza e della rinascita per non dire resurrezione, travolti dall’insolita passione per le donne speciali nei paesini del sud, per le donne speciali nei paesini del nord, per le protagoniste straordinarie nella Sicilia degli anni Venti, per le passioni che prima uniscono e poi dividono, per i luoghi dell’anima all’ombra degli alberi secolari e per il viaggio che catapulta nel passato, ecco un romanzo che arriva dritto dritto dal 1976 – le boccate d’aria fresca non sono quasi mai di aria recente – e coniuga e concentra soprannaturale, erotismo e crudeltà in una tremendissima quattordicenne dalla sensualità debordante e gelida. Vivaddio: basta cartolerie, basta imperativi morali stringendo i pugni in un baretto vista fascismo, basta sfondi dall’estetica Dolce & Gabbana che posano ad ambientazione storica. E diamoci a questa demoniaca fanciulla, varcando la soglia della dimora coloniale a Manhattan con vista porto in disarmo (“stava sorgendo la luna piena e la sua luminescenza contrastava con le luci gialle delle navi di passaggio”) in cui si svolge questa vicenda. Solo una precisazione: Lolita, evocata in bandella come riferimento, c’è solo in bandella. Non c’è nella scrittura di Ken Greenhall, che nulla ha a che vedere con quella di Vladimir Nabokov, decisamente più sofisticata e inimitabile – “Lolita” è uno di quei romanzi che cresce e commuove a ogni lettura e impone al lettore l’interrogativo che si vorrebbe, alzato il telefono, porre all’autore: “Maestro Vlad, ma come ha fatto?”. Soprattutto, Greenhall ha una scrittura più veloce e più stenografica; più ritmo, anche, ma meno genio.

Detto questo, non la si molla facilmente: c’è la morte, c’è una piccola manipolatrice e seduttrice, c’è una nonna-matrona che scompare, la polizia che indaga, una pletora di animaletti inquietanti e loquaci, una storia horror immersa nell’erotismo puro di una relazione illecita nipotina-zio. E uno specchio che parla e non riflette l’immagine della giovane Elizabeth che se ne sta lì scrutandosi palmo a palmo a misurare tutto il suo alto potenziale seduttivo, bensì quella di Frances, una strega, che dal momento della rivelazione muove la ragazza come un burattino e la manipola, la corrompe, le suggerisce esperimenti audaci e innominabili pratiche. “Solo perché sei grande abbastanza per essere malvagia, non significa che tu sia una persona adulta, Elizabeth”.

Elizabeth prende nota: esegue, immagina, gioca. Sperimenta. Ride. E il suo sguardo acquisisce un sempre più crudele e cinico sarcasmo. Divertenti le scene che la vedono alle prese con l’istitutrice, miss Barton, sempre seduta sulla propria sedia dallo schienale alto, rigida come un baccalà. “Non pensa che immaginare sia una forma di conoscenza?”. E miss Barton: “C’è una bella differenza tra immaginare e essere dotati di immaginazione, è importante che tu lo sappia”. Ma Elizabeth sente subito lo scricchiolio. E dice a sé stessa: “Mi resi conto che il suo era un mondo di parole. Il mio, di conoscenza e di potere”.

Corpo, conoscenza, potere: Elizabeth Cuttner, mentre conosce il soprannaturale, capisce il naturale. E prova desideri malevoli e invincibili. Ricavandone una certezza: l’amore può essere distruttivo come l’odio.

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