Se quel che resta del woke è solo un’inondazione di libri brutti

Dice l’Economist – e non è il solo – che siamo nella fase della risacca della rivoluzione culturale woke. Alleluia. Ma qui da noi le idee risvegliate sono diventate il galateo di un “ceto medio editoriale” perbenista

Passata la sbornia, tocca fare i conti con i postumi: la gola riarsa, la testa pesante, i danni al fegato. O anche, per dirla con Kafka, ogni onda rivoluzionaria si lascia dietro il limo di una nuova burocrazia. Per parte mia, non ho mai creduto che la rivoluzione culturale woke potesse essere vincente: molte sue idee – specie sulle questioni cosiddette di genere – sono troppo balenghe per attecchire in una società che abbia preservato un lumicino di senno. Ora dice l’Economist – e non è il solo – che siamo nella fase della risacca. Alleluia. Altrove stanno facendo i conti con il limo delle burocrazie per la Dei (Diversity, Equity and Inclusion) nei campus e nelle aziende. Qui da noi l’onda è arrivata tardi (il picco forse non è ancora raggiunto) e non è chissà quale cavallone. Le università non hanno subìto sfracelli, salvo la ciclica riverniciatura di vecchie teorie con pestilenziali gerghi alla moda. Anche il giornalismo ha contratto un buon numero di virus linguistici, ma è un malato cronico che entra ed esce da continue febbricole: è la sua costituzione. Dove si è depositato il limo, allora? Per ciò che ho potuto osservare, il terreno più devastato è l’editoria, con annesso circuito festivaliero. Qui le idee risvegliate sono diventate il galateo di un “ceto medio editoriale” perbenista, nonché un ascensore culturale per molta gente che a piedi si sarebbe fermata al mezzanino. E’ un bilancio consolante, però. Se le cose non peggiorano (e soprattutto se l’ondata anti-woke non si rivela più violenta e illiberale della debole ondata woke), possiamo dire di essercela cavata con un’inondazione di brutti libri.

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