Si stringe il cerchio attorno a Nasrallah

Israele ha colpito un altro funzionario di Hezbollah a Beirut, Ibrahim Qubaisi, responsabile del programma missilistico. Il numero delle vittime dei bombardamenti nel sud del Libano aumenta. Come il gruppo sciita è diventato una priorità anche per convincere Hamas ad accettare un accordo

Israele ha attaccato ancora alcuni dei depositi di armi di Hezbollah nel sud del Libano, ma, secondo i calcoli del generale riservista Yaakov Amidror, ex consigliere per la Sicurezza nazionale, la maggior parte dell’arsenale del gruppo sciita è ancora intatto, funzionante, pronto a sparare contro le città israeliane. Il numero delle vittime dei bombardamenti è arrivato quasi a seicento, secondo le autorità libanesi, gli avvisi che ha lanciato Israele per chiedere alla popolazione civile di allontanarsi dalle aree segnalate non sono serviti a chi non ha fatto in tempo ad allontanarsi ed è morto o sotto le bombe o per le esplosioni dei depositi di armi di Hezbollah. Il sud del Libano è stato disseminato da Hezbollah di droni, razzi e missili, pronti a essere usati contro Israele. Alcune delle armi piazzate anche sui balconi delle case civili erano visibili al di là del confine, ma fino a lunedì, lo stato ebraico aveva risposto ai bombardamenti del gruppo sciita colpendo le postazioni tra le montagne, si era tenuto lontano dai centri abitati. Se la guerra è cambiata è perché lo stato ebraico pensa di essere entrato in una nuova fase, il conflitto a Gaza prosegue, ma Hamas è depotenziato, non potrebbe partecipare ai lanci di missili di Hezbollah, ha i suoi problemi e se non firma l’accordo per il cessate il fuoco è perché crede di poter conservare il suo potere usando come arma gli ostaggi israeliani che ha rapito il 7 ottobre, non tutti sono vivi. Oggi il presidente americano Joe Biden ha parlato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha detto che è ora di concludere un accordo tra Israele e Hamas per liberare gli ostaggi.

Tsahal si è spostato dalla Striscia, si sta concentrando a nord, verso quello che, secondo Amidror, è sempre stato il fronte da non sottovalutare e che pesa sullo stato ebraico come un macigno, in termini di sicurezza, economici, politici. Hezbollah è un esercito le cui capacità non possono essere decimate da un giorno di bombardamenti, ma un giorno di bombardamenti può spingere il gruppo verso un dilemma: continuare la guerra o accettare di fermare le ostilità e quindi aumentare anche la pressione su Hamas affinché accetti l’accordo per liberare gli ostaggi? Ogni fronte si parla attorno a Israele, ma alcuni fronti combattono per conto loro. Il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, sta sperimentando per la prima volta dal 2006 cosa potrebbe voler dire un conflitto diretto con Israele, cosa vuol dire essersi unito alla guerra dalla Striscia di Gaza, seppur con distacco per non attribuire a Hamas il primo gradino del podio di un’eventuale vittoria contro Israele. Ora sente le conseguenze. Israele ha iniziato da tempo a cercare e colpire gli uomini più cari e più preziosi per Nasrallah, anche oggi Tsahal ha colpito Beirut per uccidere un altro dei funzionari di Hezbollah, Ibrahim Qubaisi, il responsabile del programma missilistico, militante nel gruppo dal 1980. Nasrallah resta nel bunker in cui è sceso nel 2006, nessuno esclude che Israele potrebbe sapere dove si trovi, ma secondo Amidror “in questo momento serve lui per negoziare un accordo”, per arrivare al rispetto di quella risoluzione 1701 delle Nazioni Unite che prevede che Hezbollah si allontani dal confine nord di Israele, a nord del fiume Leonte, e che non è mai stata rispettata.

Nasrallah non ha fatto sapere cosa vuole dopo il bombardamento di lunedì, intanto però tra Israele e il gruppo si sono spostate le linee rosse: “Prima per noi – dice al Foglio un funzionario israeliano – era la città di Haifa, adesso è Tel Aviv. Per loro prima la linea rossa era il sud del Libano, la valle della Bekaa dove hanno stipato molto del loro arsenale tra le case dei civili, adesso non si sa”. La guerra contro il gruppo libanese, nato come un progetto iraniano, è riuscita anche a unire il frastagliato panorama politico di Israele: i politici dell’opposizione a Benjamin Netanyahu da tempo dicevano che il nord era la priorità, ora lo è diventato per il governo, che ha deciso di cambiare il suo punto di pressione, da Gaza al Libano, prima di passare per Teheran.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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