La genitorialità è in crisi e per invertire la rotta c’è solo una strada

Il calo della natalità è forse l’indicatore più eloquente delle difficoltà che si riscontrano oggi nel fare famiglia. Mettere al mondo un figlio spaventa, avere chiaro il ruolo che deve assumere un genitore può essere un primo aiuto per superare dubbi e paure

La crisi della genitorialità rappresenta forse uno dei fenomeni socio-culturali più preoccupanti del nostro tempo. Se nel passato essere genitore significava semplicemente replicare un modello ereditato dalle generazioni precedenti, oggi questo automatismo non esiste più. La crescente atomizzazione degli individui, da un lato, e il disinteresse della società, dall’altro, hanno reso la genitorialità una pratica che riguarda soltanto gli individui. Ognuno se la vede a modo suo. Non ci sono modelli da seguire. Quanto alla società, essa si guarda bene dal fornirne. Se lo facesse contraddirebbe addirittura la sua determinazione a essere eticamente “neutra”. Di conseguenza i genitori sono lasciati soli in un compito decisivo, quello che i sociologi chiamano della socializzazione primaria, senza supporti materiali e simbolici di alcun tipo: debbono fare i conti con la carenza di asili nido, con la crisi della scuola, con una drammatica tensione tra lavoro e famiglia, nonché con una cultura dominante che dei figli sembra proprio non sapere che farsene.

Niente di strano dunque se siamo piombati in un glaciale inverno demografico, che incomincia a preoccuparci adesso per le sue conseguenze sul sistema pensionistico: chi pagherà le nostre pensioni visto che tra breve il rapporto tra chi lavora e chi percepisce la pensione sarà uno a uno? Ma guai dimenticare che se siamo in questa situazione è perché per decenni ne abbiamo sottovalutato e quasi rimosso il drammatico significato simbolico-culturale: la stanchezza, la sfiducia nei confronti del futuro, nonché un’inquietante complicità con la morte. In quanto tale il calo della natalità è forse l’indicatore più eloquente delle difficoltà che si riscontrano oggi nel fare famiglia e nell’essere genitori capaci di educare.

Mettere al mondo un figlio ci spaventa, non ci sentiamo all’altezza, meglio non farlo. Ci sono problemi economici, c’è una società indifferente e piena di rischi, c’è infine l’incapacità da parte dei genitori di accettare che i propri figli siano esposti a qualsiasi pericolo. Qui davvero siamo di fronte a un paradosso. Niente figli per eccesso di aspettative e di una malintesa responsabilità, verrebbe da dire. Anziché farci carico di ciò che effettivamente possiamo fare per i nostri figli, stare loro vicini, parlare con loro, ascoltarli, far vedere che, nonostante tutto, la vita vale la pena di essere vissuta, siamo come ossessionati dal pensiero che una mosca possa turbarli, che un pisello non li faccia dormire, che non abbiano a sufficienza ciò che viene loro offerto dalla pubblicità. Anziché aiutarli a entrare nel mondo ci preoccupiamo di proteggerli dal mondo, impresa peraltro vana. Ma non è questo che i figli chiedono ai loro genitori. I figli non vogliono genitori che assecondino tutti i loro desideri, né genitori che siano loro amici; non vogliono nemmeno genitori perfetti, visto che non esistono; vogliono delle guide che, pur in modo imperfettissimo e faticoso, siano in grado di testimoniare un’ideale di vita. Esattamente ciò che fatichiamo a dare, immersi come siamo in una società fondamentalmente narcisistica che, come dicevo, al massimo promuove neutralità, sembra strutturata apposta perché i figli non ci siano e quindi non si cura certo dell’educazione. Così crescono inevitabilmente sia la frustrazione dei genitori che la solitudine dei loro figli, aggravate entrambe dall’avvento della cosiddetta società digitale.

A tal proposito, innumerevoli ricerche documentano da anni i rischi cui vanno incontro bambini e adolescenti lasciati per ore e ore, senza alcuna guida, davanti al video di un televisore, di un computer o di uno smartphone collegati in rete. Recentemente lo ha fatto anche Jonathan Haidt, in un libro, che si annuncia di successo, intitolato “The Anxious Generation. How the Great Rewiring of Childhood Is Causing an Epidemic of Mental Illness (Penguin Press, New York 2024). Con un linguaggio semplice ed efficace vengono presentati quelli che, a detta dell’autore, sono i due principali errori educativi che stiamo perpetrando da almeno una trentina d’anni: l’iperprotezione dei nostri figli rispetto al mondo reale, l’unico luogo in cui si possono imparare per esperienza diretta le cose importanti della vita, e l’abbandono dei nostri figli online dove, specialmente durante la pubertà, sono particolarmente vulnerabili. La generazione ansiosa della quale si parla nel titolo del libro scaturisce principalmente da questi due errori. Per essere più precisi, secondo Haidt, tutto sarebbe iniziato negli anni Ottanta con la transizione da una “infanzia basata sul gioco” a una “infanzia basata sul cellulare”, ossia su tutto ciò che, a cominciare dai videogiochi, include la possibilità di utilizzare tutto ciò che offre la rete.

Per diversi decenni gli adulti hanno sempre trovato il modo di tutelare i loro figli dai nuovi rischi generati dal progresso sociale, senza rinunciare a perseguire i propri desideri. E’ accaduto ad esempio con l’obbligo dei seggiolini in automobile o con la proibizione di vendere alcolici ai minori. Oggi però abbiamo creato un mondo virtuale dove gli adulti possono soddisfare ciò che vogliono e i minori vengono per lo più lasciati a loro stessi, del tutto indifesi. Internet può essere molto più pericolosa dell’alcol o di un’automobile priva del seggiolino. Privazione dei rapporti sociali, privazione del sonno, incapacità di concentrazione, dipendenza sono i segnali di questa vera e propria piaga sociale che incombe su bambini e adolescenti. Un’emergenza, sul cui sfondo diventa a mio avviso ancora più stringente quella che considero la regola aurea per qualsiasi genitore che voglia essere credibile ed efficace con i propri figli: mai pretendere di conoscere quello che passa loro per la testa, fare il possibile perché sia loro chiaro quello che passa nella nostra e, nel dubbio, scegliere sempre la soluzione che ci costa più impegno e fatica.

Lo dico in maniera forse troppo perentoria, ma credo che questa sia l’unica strada per invertire la rotta, trasformando addirittura la società in cui viviamo in una grande opportunità sia per i genitori che per i figli.

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