Infermieri, i grandi malati. Un paese in crisi di cura

Sottopagati, demotivati perché indotti a svolgere altre mansioni o delusi dallo scarso riconoscimento sociale. In Italia mancano 65 mila infermieri, e tanti abbandonano o vanno all’estero. Storie di una professione sull’orlo del collasso. Un’indagine

L’ultima a interrogare la nostra riflessione è stata Anna, che la sua lotta tra opposte idee di vita, di morte e di cura la combatte in un ospedale di guerra del 1918. Nel film di Gianni Amelio Campo di battaglia è una bella figura di infermiera, che com-patisce con i soldati feriti ma soffre il limite del suo ruolo, quando a una donna non era concesso accedere alla professione medica e doveva accontentarsi di un ruolo subalterno, assistere gli infermi. Permane, radicata negli strati profondi della nostra cultura, l’idea che prendersi cura sia elemento femminile, la donna madre-soccorritrice. Del resto ancora oggi in Italia le infermiere sono quasi 350 mila, mentre i colleghi uomini poco più di centomila. Un riconoscimento sociale incerto, un ruolo ancillare rispetto alla medicina, ma oggi non è più soltanto questione di genere. Oggi è la professione infermieristica stessa a essere in crisi. Lo dicono i numeri e le cronache. Non è soltanto l’aspetto economico e organizzativo. E’ sull’idea stessa del “prendersi cura” che la nostra società sta annaspando, e il discorso potrebbe allargarsi identico ai medici. Come hanno scritto Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi su Avvenire, tra il 2010 e il 2024 le domande di immatricolazione a Infermieristica sono calate da 46 mila a 21 mila: una “crisi di vocazioni per la cura” legata “soprattutto al valore relazionale e sociale di mestieri che non sono basati sulla funzionalità di una macchina”. La vera questione, dicono, “è rimettere al centro una dimensione di senso, di ragioni per cui oggi, di fronte a tante opzioni alternative, abbia senso dedicarsi a una attività del genere”.

Parametri poco vitali

Lo scorso 14 settembre il “profilo dell’infermiere” ha compiuto trent’anni: in Italia la riforma del 1994 ha riconosciuto gli infermieri professionali come “operatori sanitari”. Nasceva allora anche la formazione universitaria. Trent’anni dopo, a scorrere i giornali, quel “profilo” sembra sull’orlo del collasso. Un paio di settimane fa i dati sulle immatricolazioni hanno attirato i titoli: 20.715 candidati per 20.435 posti disponibili. Calcolando abbandoni e turnover, nei prossimi anni la metà di quei 20 mila posti resterà vuota. In Italia mancano 65 mila infermieri, dati della Corte dei Conti, numero destinato a crescere con l’aumento delle necessità e l’invecchiamento della popolazione (siamo secondi solo al Giappone, dove però sugli infermieri stanno da tempo correndo ai ripari). C’è poi un alto numero di abbandoni – soprattutto nel sistema pubblico – stimato in circa 8.000 all’anno; alto è anche il numero di chi sceglie di lavorare all’estero, per motivi economici ma non solo. La cronaca racconta poi ogni giorno il grave problema delle aggressioni nelle corsie, secondo l’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie il 32 per cento degli infermieri subisce ogni anno violenze fisiche o molestie verbali. Questo aggrava un mood già negativo. Non vale solo per l’Italia. Secondo Nursing Up “il pericolo è che ognuno dei paesi (Italia compresa), all’interno di un sistema sanitario avanzato, rischi di perdere fino a 20 mila infermieri assunti a contratto a tempo indeterminato entro il 2027”. La causa più indicata, da noi, sono le retribuzioni basse. Un infermiere italiano guadagna tra i 24 mila e i 32 mila euro lordi, livello tra i più bassi in Europa secondo l’Ocse. Altra causa è la mancanza di personale che costringe a forzare l’organizzazione del lavoro. La crisi degli infermieri esiste anche negli altri paesi ed è già stata scontata, negli anni, attraverso il reclutamento di personale straniero. Non è solo il parametro economico a determinare la fuga dalle professioni di cura (che riguarda anche i medici). Com’è stato possibile?

Eroi dello schermo

Eppure solo qualche anno fa gli infermieri, con i medici, erano gli “eroi” che ci hanno salvato dalla pandemia. La fotografia di una di loro con camice e mascherina accasciata sul tavolo, sfinita da giorni e notti senza requie, ha fatto il giro del mondo. Sono decine le serie tv in tutto il mondo che hanno a protagonisti infermiere/i magnifici e di grande empatia, dalla celebre Nurse Jackie – Terapia d’urto a Nurses – Nel cuore dell’emergenza all’italianissima Medicina generale della Rai. Umanissimi eroi della nostra vita quotidiana, il lato migliore di una socialità condita di stucchevoli “andrà tutto bene”. E dunque? Qualche tempo fa il sito DimensioneInfermiere ha ripreso la lettera di “un infermiera/infermiere qualsiasi” sulla “continua fuga” da questo lavoro: “Non ci sono le condizioni per potermi esprimere come il/la professionista della salute che vorrei essere”. O ci si adegua, “appiattendo la propria professionalità e umanità… o le attitudini del singolo professionista vengono ignorate, perché l’azienda di questo ha bisogno”. Risultato: “La mia amara conclusione a riguardo è che sia i giovani italiani sia quelli sudamericani scapperanno se non saremo in grado di rendere attrattiva una professione che di per sé è magnifica, gratificante, dall’enorme potenziale”. Di solito la si butta sui soldi, sul burnout. La realtà è più complessa, serve una consapevolezza critica del proprio lavoro.

L’oblio sugli “eroismi” da Covid. La frustrazione degli infermieri. La retribuzione non adeguata pesa, ma il primo problema è un mancato riconoscimento sia sociale sia professionale. E le nuove soluzioni fanno discutere



Gloria, la chiameremo così, giovane infermiera in servizio da quattro anni, ci racconta la propria consapevolezza. Lavora in un reparto di medicina intensiva in uno dei migliori ospedali di Milano. Si è laureata con ottimi voti, ma dice: “Questo lavoro ho imparato ad amarlo sul campo”. Eppure “il campo”, il reparto, la corsia, non è per nulla facile. Riflette sulla sua esperienza: “E’ un lavoro molto bello in cui conta anche il coinvolgimento umano. Però più facciamo e meno siamo valorizzati. O meglio: siamo costretti dall’organizzazione del lavoro, dalla mancanza di personale, a svolgere mansioni che non sono quelle per cui abbiamo studiato, a cui ci siamo appassionati. Molti colleghi più anziani, che magari si sono formati prima che nascessero le lauree (a metà degli anni ‘90) erano più abituati a fare lavori che oggi vengono considerati demansionanti” – quegli aspetti di assistenza al malato che in teoria oggi sono competenza degli Oss, Operatori socio sanitari, che hanno il diploma di scuola professionale. Poi, con il Covid, molto di questi “anziani” sono usciti. “I giovani vogliono essere valorizzati”, prosegue Gloria. “Il nostro lavoro ha oggi un livello concettuale, una padronanza di obiettivi e competenze completamente diversi. Ma troppo spesso tocca fare lavori per cui non abbiamo studiato. E nel nostro sistema sanitario non c’è spazio per migliorare, né in termini economici né professionali. E’ frustrante”. La retribuzione non adeguata pesa, ma il primo problema è un mancato riconoscimento sia sociale sia professionale: “Io non vengo identificata per quello che sono. Il vecchietto malato non mi riconosce, mi chiede cose che sono compito di altri”. E finché non piovono insulti, va ancora bene. “Ma anche a livello aziendale ti sono richieste mansioni che spetterebbero ad altri”. Così va nel pubblico, nel privato non va meglio: “Guadagni magari un po’ di più perché entri con una specializzazione, ma sulla professionalità c’è molto disinteresse”. Lo scoramento è davvero un sentimento così diffuso? “I dialoghi tra noi, nel corridoio o in una pausa caffè, sono tutti così: la depressione di un lavoro per cui hai studiato tanto, hai fatto tirocinio, e poi…”. E’ il motivo per cui molti puntano ad andare in strutture ambulatoriali private o a lavorare come “infermieri di famiglia”, una sperimentazione con cui alcune Aziende ospedaliere stanno provando ad affrontare il problema delle cure esterne all’ospedale.

Detta in soldoni

In Italia un infermiere guadagna tra i 24 mila e i 32 mila euro lordi, dipende dal luogo e dalla mansione; poi ci sono gli straordinari, i notturni. Le differenze tra regioni (la sanità è regionale) non sono forti e questo mette sotto pressione le aree dove il costo della vita è maggiore. Malgrado gli aumenti dell’epoca Covid e post, gli italiani guadagnano meno rispetto ai colleghi europei. In Francia il reddito può arrivare a 34 mila euro lordi annui, in Spagna a 35 mila, in Germania a 41 mila. La Mecca dell’Ue è il Lussemburgo, si va oltre gli 80 mila, mentre fuori classifica c’è la Svizzera, l’Eldorado che attira soprattutto i frontalieri della Lombardia, dove gli stipendi sono il doppio. Non è un caso se la Lombardia guidata da “Mr. Wolf” Guido Bertoldo abbia annunciato la creazione di alloggi a prezzi calmierati per gli infermieri, per cercare di trattenere almeno una parte dei quattromila che ogni giorno vanno a lavorare in Svizzera. Ma per ora è solo un annuncio.

Le risposte della politica spesso sono panacee, e le risorse sono sempre poche. In difficoltà è l’idea di stessa di cura, una complessità in cui coesistono più esigenze, ma al centro c’è il malato. La formazione e la carenza di personale alla fine degli anni 80. Un lavoro usurante. Siamo il paese Ocse con meno infermieri per mille abitanti



Trovare personale o trattenerlo, quando i cordoni della borsa sono stretti e le emergenze molte, diventa così anche questione di inventiva. Tempo per le grandi riforme non ce n’è (qualche giorno fa il ministro Schillaci ha detto che “servono subito diecimila infermieri per l’emergenza-urgenza”, cioè i Pronto soccorso). Il governo di destra, apripista come al solito la Lombardia, indica come criticità da estirpare quella dei “gettonisti”, tra i medici, e degli infermieri gestiti da cooperative. Ma non tutti sono d’accordo con le nuove soluzioni. Ad esempio Antonio De Palma, presidente nazionale di Nursing Up, è contrario alla creazione degli “assistenti infermieri”, una figura intermedia ideata dall’attuale governo – in pratica un Oss con cinque anni di esperienza può ottenere un upgrade di ruolo – con l’obiettivo di tamponare la carenza di infermieri: “Un gran pasticcio, che acuisce la già precaria stabilità della professione infermieristica”. Così come è ancora da valutare la scelta effettuata da Bertolaso (che ha provocato qualche tensione) di chiudere le porte alle cooperative infermieristiche – che in questi anni hanno svolto supplenza rispetto alla necessità di personale che il sistema pubblico non era in grado di reclutare – e sostituirle con un sistema “liberalizzato” in cui gli infermieri possano svolgere anche attività in partita Iva (su una base di 40 euro all’ora) per rallentare la fuga verso il settore privato. L’ultima riforma per la sanità territoriale ha previsto la creazione di “case di comunità”, ma gli infermieri per aprirle non ci sono. Il governo, Lombardia anche qui apripista, ha riaperto la caccia agli infermieri extracomunitari. Ma ci sono due problemini: uno, per ottenere l’equipollenza dei titoli di studio in Italia occorrono ancora dai sei mesi a un anno. Due, ci racconta un operatore che per anni ha reclutato e formato personale nel sistema cooperativo, “quando hai preparato l’infermiere, quando ha superato il gap della lingua, quando lo hai inserito, resta il problema generale del nostro paese: niente welfare, niente sostegno all’abitazione eccetera: così il tuo infermiere appena può va in Germania, dove tutto questo è garantito immediatamente”. La soluzione rapida più praticabile resta al momento quella di liberalizzare la professione, permettendo di lavorare dentro e fuori il Sistema sanitario nazionale. Secondo Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche (Fnopi), occorrerà “eliminare del tutto il vincolo di esclusività”. Ma l’impressione di un panorama depresso e senza prospettive rimane.

Non solo questione di soldi, c’è un tema di riorganizzazione di sistema. Ma, ci dice un esperto, il problema è che ognuno bada al suo pezzetto: “La politica deve offrire risposte che appaiano risolutive, ma spesso sono panacee, e le risorse sono sempre poche – o sempre giudicate troppo poche da chi è all’opposizione. Chi ha la responsabilità organizzativa bada solo a far marciare le aziende, ma la qualità e la selezione del personale restano sullo sfondo”. Così la “fuga” verso la libera professione, i poliambulatori privati (niente turni, niente reparti a rischio) prosegue. Chi è al timone della nave che sbanda cerca di rifunzionalizzare qualche pezzo, ma è sufficiente?

L’alveare impazzito

I numeri danno solo una percezione astratta. Il vero dramma è guardare la sanità come fosse un comparto industriale. Invece la combinazione tra fattore umano e competenze è più complessa. Davvero sono gli aspetti economici e organizzativi a determinare una crisi che si può definire sistemica? Più di un osservatore sottolinea che in difficoltà è l’idea di stessa di cura: il paziente (specie se anziano, se cronico) va gestito con procedure standard, quando è possibile a distanza (delizia e croce della telemedicina) e il costo misurato in livelli di prestazioni. Ma non tutto può essere così.

Ogni anno la Giornata internazionale dell’infermiere si celebra il 12 maggio, data di nascita di Florence Nightingale, considerata la fondatrice della professione infermieristica moderna. Un po’ di storia non guasta. Durante la guerra di Crimea del 1853, questa donna nata in una famiglia della grande borghesia inglese, di profonda fede anglicana e paladina-missionaria dell’assistenza ai malati, fu incaricata dall’esercito inglese di occuparsi dell’ospedale di Scutari, in cui i feriti giacevano in condizioni che avevano sollevato scandalo fino in patria. Con quaranta infermiere selezionate con metodo militaresco, ribaltò l’organizzazione dell’ospedale, a partire dall’igiene e dall’impostazione di un metodo scientifico di lavoro. Dopo la guerra Nightingale passò alla formazione delle infermiere, e volle che avvenisse in convitti in cui preparazione tecnica e dedizione morale fossero tutt’uno. Insomma l’infermieristica moderna, evoluzione delle cure medievali affidate agli ordini religiosi, nasce con un’idea femminile e missionaria. In Italia i convitti per le infermiere furono istituiti dal fascismo. Solo nel 1971 l’obbligo di internato fu soppresso e l’accesso alle scuole aperto anche agli uomini. Oggi l’infermieristica viene definita “un corpus complesso e sistematico di conoscenze e strumenti teorico-metodologici volti all’esercizio delle funzioni di tutela e promozione della salute, individuale e collettiva”. Ma ad avere forgiato e sorretto questa “dedizione alla cura” è stata un’impronta religiosa o di tipo filantropico. Oggi questo substrato culturale è molto modificato.


Il Covid non è stato solo una tragedia e uno stress test del sistema sanitario, per gli infermieri ha generato anche un “long Covid” che ha fatto emergere malesseri e necessità profondi. In primis quella di un riconoscimento sociale della professione, presto tradita dalla politica sanitaria e dagli stessi utenti. Ma anche una sorta di “paura della professione”, certamente esposta a fattori di pericolosità in precedenza meno considerati. Oggi è come se l’infermiere, spingendo di lato i medici, fino a ieri unici protagonisti della scena, rivendicasse un ruolo e un riconoscimento decisamente più consistente. Anche a costo di minare il vecchio contesto organizzativo. E’ cambiato un mondo, e intanto cambiano anche le esigenze dei pazienti, soggetti a loro volta a una esasperazione sociale che sembra dominare ovunque.

Anamnesi di una crisi

Un esperto alto dirigente di una grande struttura di cura privata, che da oltre trent’anni ha a che fare con l’organizzazione del lavoro di medici e infermieri, ci ricorda innanzitutto che le cose non accadono out of the blue: “Dalla fine degli anni ‘80 si sono susseguiti diversi periodi di crisi infermieristiche. Alla fine ’80 la carenza di personale, che determinò la prima vera necessità di reperimento dall’estero, fu causata dal passaggio dal diploma rilasciato dalle scuole infermieristiche ospedaliere, a cui ci si poteva iscrivere dopo il biennio di una qualsiasi scuola superiore e potremmo dire sotto casa, in quanto ogni ospedale aveva la sua scuola, alla preparazione universitaria, più lunga e costosa”. Per la prima volta il ministero della Sanità, impreparato, si trovò a gestire, tra molte difficoltà la ricerca di personale straniero. Ma l’occasione di riforma fu sfruttata meno bene che in altri paesi. Poi per un lungo periodo la ripresa si è consolidata, anche a causa delle ripetute crisi del mondo industriale: l’infermiere era diventato uno sbocco lavorativo sicuro. Oggi, spiega il nostro dirigente esperto, c’è una crisi che ha ragioni diverse. Da un lato l’insoddisfazione di cui s’è detto. Dall’altro un mutamento di percezione: “Oramai sono parecchi i rivoli soggettivi che dilagano tra gli infermieri, poco orientati (dalle scuole universitarie? Se così fosse è un bel problema) al paziente come centro attorno a cui deve ruotare l’organizzazione sanitaria, e invece molto orientati all’affermazione dell’autonomia e indipendenza dell’agire infermieristico”. Dinamica presente anche nel mondo industriale e dei servizi – basti pensare al fenomeno, molto mediatizzato, delle “grandi dimissioni” – che ha fatto crescere “un’idea che pare ormai dominante della superiorità delle esigenze individuali rispetto a quelle dell’organizzazione e dello stesso scopo ultimo di una professione”. Si sta insomma perdendo di vista, ci racconta anche un altro dirigente, ex infermiere poi passato dall’altra parte, “l’idea di cura come una complessità in cui coesistono più esigenze, ma al centro c’è il malato. Così i politici o i direttori delle aziende vedono solo la parte organizzativa o contrattualistica, e il concetto di cura è meno considerato. Nessuno lo vuole ricordare, ma la stessa crisi di vocazione i paesi del nord Europa lo hanno già vissuto, a livello anche medico, anni fa. E lo hanno risolto ricorrendo agli stranieri: cioè abdicando a una possibile rinascita sociale dell’interesse per la cura dei fragili”. Altro sguardo allo steso problema, un operatore che si occupa di reclutamento e formazione dice: “Se oggi vai in una scuola a proporre agli studenti questo lavoro ti guardano come un matto. E’ difficile far capire che il lavoro di cura ha un suo senso di fronte a obiezioni tutte sugli orari di lavoro e i turni. Mi è capitato nei colloqui che la prima richiesta fosse: voglio il weekend libero”.


Il nostro manager esperto stila una poco divertita (anzi amareggiata) casistica degli indicatori della perdita di motivazione degli infermieri, vista dal vivo: “a) Uso del cellulare in faccia al paziente durante l’assistenza; b) Rifiuto di fare notti, sabato e festivi; c) Fuga dai reparti più pesanti o considerati a rischio; d) Richiesta di smart working (!); e) Turn over continuo da una struttura all’altra; g) Preferenza della libera professione, concentrando tante ore in pochi turni; h) contrapposizione con le altre figure del sistema sanitario (fisioterapisti, tecnici di radiologia…) viste come figure meglio tutelate”.


La questione è insomma legata a una nuova, diversa, disposizione nei confronti di un esercizio di cura al cui centro non c’è però un oggetto ma una relazione con persone. Accade anche nella scuola, nel sostegno alle disabilità, nel care giving e in tutte le attività alla cui base non può esserci che una consapevolezza umana. Un lavoro usurante? Difficile negarlo.


Per usare le parole di De Palma: “L’infermieristica, le professioni assistenziali sono usuranti per antonomasia perché espongono l’essere umano al contatto costante col dolore e con la morte, con la responsabilità di avere tra le mani vite umane… Se non è questa usura, e lavorare il doppio perché non c’è abbastanza personale, quale altra professione è tanto usurante?”. Si deve riflettere su come adeguare tutto ciò alle nuove consapevolezze sociali. Ma è improbabile pensare di poter aumentare le iscrizioni a Infermieristica senza recuperare questo profondo livello morale.

Andare all’estero


Scontentezza, difficoltà di sistema. Ma anche una minore disponibilità. Sono cose che si sommano e non si elidono. L’impressione è quella di una professione rimasta a cento anni fa: senza evoluzione, senza possibilità di carriera, senza riconoscimento sociale. In più, la carica filantropica che la sorreggeva è come svuotata. “Una catena fordista che non funziona più”, ci dicono. “Manca un po’ di anima”, ci dice un infermiere, ma manca anche la prospettiva. Il risultato è che l’Italia è il paese Ocse con meno infermieri per mille abitanti, 6,4 contro una media europea di 9,5, e anche la percentuale di laureati in Infermieristica è la più bassa, 17 su centomila abitanti contro una media di 48.



Uno dei ritornelli più ripetuti, in parte con fondamento e in parte con un eccesso retorico dei media, è la grande fuga all’estero. All’estero si lavora meglio e funziona meglio. Tutto vero? In parte sì, almeno dal punto di vista retributivo. Ma, soprattutto in alcuni paesi, la differenza la fa la qualità. E’ la storia che ci racconta un’altra giovane infermiera, la storia di Anna. Che si è laureata all’Università Vita Salute del San Raffaele, aveva una buona prospettiva di carriera, ma ha deciso di fare un’esperienza in Gran Bretagna, inizialmente un anno, “un po’ per formazione un po’ per curiosità di vita”. Ha fatto domanda al National Health System, ha superato alcuni step. Ora vive e lavora con soddisfazione a Oxford come infermiera specializzata, con un livello di carriera e mansioni top. Torneresti in Italia? “Sì, ma a parità di condizioni professionali e di stipendio”. Cioè no. La sua storia spiega il perché. Oggi Anna è infermiera specializzata (Advanced nurse practitioner) in chirurgia plastica, specialista nel seguire pazienti che hanno effettuato un intervento di ricostruzione del seno. Il suo inquadramento, dipendente del NHS, è a un livello alto, “band 8”. Soddisfazione professionale? “Molta”. Differenze? “La prima differenza decisiva del sistema inglese è proprio questa. Io, come altri colleghi arrivati con laurea da paesi sia Ue sia extra europei (il Regno Unito ha una politica di reclutamento molto sviluppata e facilitata dai rapporti con i paesi Commonwealth, ndr) siamo entrati a un livello base di carriera. Infermiere di reparto. Ma subito sei inserito in un ‘education team’ in cui altri colleghi svolgono attività di tutoring; devi superare dei corsi, se lo scegli puoi intraprendere una specializzazione. Io stessa, dopo un anno e mezzo, sono entrata a far parte di un ‘education team’ per la formazione di nuovi infermieri”. In pratica sei guidato a una crescita continua, cosa che da noi “fai solo con l’esperienza”, come si dice. “Esatto. Poi ci sono livelli di responsabilità – e quindi anche di autonomia nella gestione del tuo lavoro – a salire, da infermiere generico a vice caposala, a caposala. Poi, specializzandoti, puoi accedere ai ‘Band’ 8 o 9, in pratica dirigenziali, che comprendono una parte di alta responsabilità, di guida del reparto, o della tua équipe”.

La difficoltà di essere infermieri, punto d’unione di due debolezze del paese

La possibilità di specializzarsi in Italia è molto più difficile e comunque non inserita in una precisa organizzazione: “Io invece ho fatto un corso di chirurgia plastica, poi un master di due anni in senologia diagnostica e chirurgia senologica – ovviamente sempre riferiti alla mia qualifica di assistente, non certo alla parte medica”. In Italia sarebbe più difficile? “Diciamo che qui quei master sono pagati dal NHS. Anzi addirittura, se scegli di fare un certo tipo di master hai anche uno ‘study day’ settimanale retribuito”. Il risultato? “Oltre a una migliore retribuzione, puoi progredire nella autonomia professionale, accedi a un ruolo superiore, hai la capacità di prendere decisioni cliniche complesse”. Quindi un lavoro molto diverso. “Io oggi, sempre nella parte infermieristica, faccio anamnesi, stabilisco obiettivi, prescrivo farmaci e alcuni esami. Ovviamente nel mio campo e solo in quello. Tutto questo in Italia è impossibile, e questo limita molto il lavoro di cura anche perché sovraccarica il ruolo dei medici”. La professione infermieristica a questo livello di organizzazione cambia, “io non faccio turni, lavoro anche in ambulatori specialistici in cui seguo determinati pazienti. Un altro concetto”. Non tutto è oro: “Anche qui c’è insoddisfazione, ai livelli più bassi, il personale che arriva dall’estero è spesso da formare, le retribuzioni inferiori. Ma la prospettiva professionale è molto delineata”. Differenza con l’Italia: “Lì il profilo professionale resta piatto, non c’è possibilità di carriera”. Tornare? “Sì, ma…”. Cioè no.

Lo specchio di un paese bloccato

La storia degli infermieri in Italia è la storia allo specchio di un paese doppiamente bloccato. Da un lato è il ritratto di un paese fermo che non sa trasformarsi: non solo il suo sistema sanitario ma tutta la funzione pubblica, in cui le professioni non sono riconosciute. In cui la professione infermieristica è ancora legata a un’immagine di decenni fa. E in cui le differenziazioni – Oss, assistenti infermieri, personale paramedico – non corrispondono a vere specializzazioni. Si esce dall’università e nel settore pubblico si rimane più o meno dove si è. Dall’altro lato del specchio, la crisi in cui si dibatte la professione infermieristica – ma c’è molta differenza con quella degli insegnanti? – è anche il dramma di una società che sta perdendo un’idea si sé. L’idea di cura in questo caso – e in un momento in cui ad esempio la cura del dolore sta richiedendo sempre più attenzione – che richiede un surplus empatico che non è soltanto un fronzolo aggiunto, da segnalare sul portfolio, ma è una parte del Dna di un lavoro che è, e sempre sarà, molto particolare. Ma questa difficoltà di empatia, di dedizione non quantificabile, è un problema che emerge in tutti gli ambiti della convivenza civile. O vogliamo credere che le esplosioni di violenza cui assistiamo, dentro e fuori gli ospedali, o di disinteresse sociale, siano un caso? La difficoltà di essere infermieri è il punto d’unione simbolico, ma molto concreto, di due debolezze del nostro paese. Abbiamo iniziato evocando un’infermiera del cinema, concludiamo evocando un infermiere e del piccolo schermo. Il Daniele protagonista proprio in questi giorni della seconda stagione di una serie di successo, Tutto chiede salvezza 2, tratta dal romanzo di Daniele Mencarelli. Il ragazzo protagonista, nel romanzo e nella prima stagione, è ricoverato in un reparto psichiatrico per un TSO e a salvarlo è proprio il rapporto con gli altri pazienti e infermieri. Ora ha scelto di divenire lui stesso infermiere. Ma si trova alle prese col suo “eccesso di empatia verso il dolore” e i rischi che comporta. Molti infermieri avranno da eccepire, come fecero per la prima stagione, sul modo approssimativo di rappresentare la loro professione. Ma quella domanda è impossibile da evitare.

Di più su questi argomenti:

  • Maurizio Crippa
  • “Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini”

Leave a comment

Your email address will not be published.