Il caos alla Roma ha generato Juric e tre punti

La settimana nella quale si è visto l’esonero di Daniele de Rossi, i dissapori con l’amministratrice delegata Lina Souloukou, le dimissioni di costei, l’arrivo del nuovo allenatore, le contestazioni a Pellegrini e Cristante si chiude con la prima vittoria in campionato dei giallorossi

Ecco l’agnello di Dio, che toglie i peccati dal mondo. Di fronte a tante partite noiose, il primo tempo del Torino a Verona riconcilia con il calcio, e dona per una settimana la vetta della classifica a un popolo bisognoso di entusiasmo: chi aveva seguìto il modo che aveva Paolo Vanoli di dominare le partite in Serie B ne riconosce ora i medesimi crismi.

Ecco l’agnello di Dio, che allontana i peccati da sé: Albert Guðmundsson ha il soma degli angeli dipinti, ma gli pendono accuse disonorevoli. In pochi giorni vola a processo tra i ghiacci e ritorna a Firenze per esordire con due rigori (uno dei quali conquistato in proprio) in 45 minuti, dando respiro a una formazione che pare incasellata in qualche modulo balzano del fantacalcio.

Ecco l’agnello di Dio, che toglie le castagne dal fuoco: le sembianze dinoccolate di Matteo Gabbia, giovane leader silenzioso e rispettato, per la durata di un derby sistemano le cose in difesa e diventano pure quelle di Marc Hateley, salvando la panchina di Paulo Fonseca. Che ha finalmente compreso come Álvaro Morata e Tammy Abraham sont les mots qui vont très bien ensemble, anche in una piacevole ripresa giocata a viso aperto e maglie larghe, sotto gli occhi di uno Zlatan Ibrahimovic – inquadrato troppo spesso dalle telecamere – i cui atteggiamenti stanno cominciando a stufare la stessa tifoseria, oltre agli ultimi dirigenti che portarono il Diavolo a vincere.


Questa è “La nota stonata”, la rubrica di Enrico Veronese sul fine settimana della Serie A, che racconta ciò che rompe e turba la narrazione del bello del nostro campionato che è sempre più distante da essere il più bello del mondo


Ma chi agnello si fa, la Lupa giallorossa lo fagocita: pensare a quanto stia diventando quasi superfluo Matías Soulé, dopo le tardive giravolte di mercato e con un Tommaso Baldanzi in ennesima ripartenza crescente. La Lupa famelica scende da Monte Mario inurbata, e fa un sol boccone di quell’Udinese (già antesignana, col Vicenza, delle provinciali di successo continuativo negli anni Novanta, escluso il caso-Verona) che stava provando a fari spenti a riprendersi il proprio ruolo, considerato come nella Champions League a cinque elette è finito pure il Bologna.

Una fagianata presto punita dall’animale selvatico, feritosi da sé per mezzo di una delle tante tagliole che mani “amiche” avevano disseminato nelle boscaglie fuori Trigoria: a mettere assieme i pezzi di quanto accaduto tra scrivanie e campo nell’ultima settimana, nell’ultimo mese, vien facile pensare che la gestione societaria sia figlia del caso, se non del caos. Per essere buoni.

Paulo Dybala confermato controvoglia dopo aver prelevato il suo possibile sosia calcistico, l’ennesimo esempio di romanità Edoardo Bove ceduto con reciproci rimpianti mentre l’history repeating incoccia Niccolò Pisilli, Er Prossimo; il centravanti inglese che fa e disfa sbolognato frettolosamente al Milan, dove appunto in qualche modo rende, e c’è da pregare che non si rompa il neo-ingranato Artem Dovbyk. La gestione fantozziana di Nicola Zalewski, considerato una plusvalenza più che un tesoro del vivaio, confinato fuori rosa e ora sperabilmente reintegrato dopo il lungo infortunio di Alexis Saelemakers.

Soprattutto, l’esonero di Daniele de Rossi giunto poche settimane dopo la firma di un contratto triennale, i dissapori con l’amministratrice delegata Lina Souloukou (minacciata e protetta dalla scorta!), le altrettanto improvvise dimissioni di costei, il repentino arrivo di Ivan Jurić in panchina, i fischi sonanti della curva a Lorenzo Pellegrini e Bryan Cristante. Alzi la mano chi ha capito qualcosa del disegno preventivo: non occorre evocare il famigerato “ambiente” per avvedersi di una Roma stonata, venduta per due buffi a un vecchio americano, assieme di note ben poco armoniche e certo non unisone.

Senonché il calcio-noir attrae le cronache più del calcio-gol, sempre meno atto a coprire un’intera settimana, nonostante l’overfootball quotidiano: e Soulokou, con il suo ruolo di Mrs. Wolf risanatrice di bilanci, bene si presta al ruolo di dark lady, di intrigante villain per complottisti. Chi sottoscrive l’abbonamento stagionale o paga il biglietto occasionale merita altro che gioielli precocemente ammuffiti in panca per disposizioni dall’alto, o ripieghi malconci dall’aura gloriosa, tipico di chi s’aspettava Cannavaro e riceveva Cufrè.

Del resto i Friedkin hanno già dato prova di schizofrenica umoralità, quando al loro esordio anche i sassi dell’antico tempio di Vesta sapevano che Maurizio Sarri sarebbe stato il successivo allenatore della Roma, salvo mandare tutto all’aria per la smania di chiedere in giro chi fosse il mister più famoso e titolato, e di virare così verso José Mourinho.

Giusto contrappasso per platee ormai abituate a ragionare di soldi come esperti broker, masse di periti di minuzie contrattuali, “uno vale uno” che discettano di spese come fossero le loro. L’ultimo regalo è un allenatore metallaro – si direbbe, di epico spartito orchestralem- che non le manda a dire, promette al portiere Mile Svilar metà incontri da inviolato (come il connazionale Vanja Milinković-Savić a Torino) e magari, chissà, la pace tra gli ulivi tormentati. Al ferreo sergente croato, ora, l’arduo compito di essere la casella sopra la quale si ferma la pallina della roulette, quando la velocità impressa dal croupier rallenta e il quadro diventa definitivo.

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