C’erano una volta le donne afghane

Da quando l’occidente ha lasciato Kabul, non c’è stata pace per nessuna: non possono mostrare il loro volto e oggi hanno perso anche la voce, dimenticate dalla sinistra che vaneggiava di “sorellanza” e “talebani inclusivi”

Che cosa penserebbe Elisabeth Naim Ziai, morta nel 1994, dell’attuale condizione delle donne afghane con i talebani che hanno promulgato una nuova legge sulla morale che cancella persino le loro voci in pubblico? “Spero davvero che il diritto delle ragazze all’istruzione sia acquisito e che non si torni indietro”, scriveva Elisabeth alla fine degli anni Cinquanta nel suo diario, da cui nasce l’affascinante documentario di Charlotte Erlih, “Una francese a Kabul”. Nel 1928 la giovane bretone Elisabeth, sposata con il cugino del re progressista dell’Afghanistan Amanullah Khan, si preparava a partire per Kabul con il marito e pensava di scoprire una società in via di modernizzazione grazie alle riforme avviate dal re e all’impegno femminista della moglie Soraya: apertura di una prima scuola femminile, autorizzazione al lavoro, divieto di matrimonio senza consenso. Una rivoluzione in un paese che, secondo il monarca, “tratta le donne come schiave”.

Un secolo dopo ancora una volta si tratta di una donna, una giovane donna, che ha il coraggio di dire ciò che giornali, intellettuali e politici non hanno interesse a difendere. Ma stavolta il titolo dovrebbe essere: “Un’afghana a Parigi”. Marzieh Hamidi ha ventuno anni, è un’atleta di alto livello, campionessa di taekwondo e rifugiata in Francia. Rifugiata, perché Marzieh è afghana, ha lasciato il paese tre anni fa, quando in poche ore è crollato il proto-protettorato occidentale. Nelle strade di Kabul, uomini barbuti in qami scuro, kalashnikov in mano, sarebbero presto stati impegnati a ristabilire il loro vecchio ordine, la sharia. Chi si ricorda? All’epoca, la bella sinistra, la più pura, disse che dovevamo aspettare, che non potevamo sapere in anticipo cosa avrebbe portato questo nuovo governo talebano, che forse sarebbe stato “inclusivo”. Da fine agosto, le donne non hanno più il diritto di mostrare il proprio volto, compresi gli occhi, e nemmeno di parlare fuori casa, e dentro casa possono solo sussurrare. Una riduzione al nulla; letteralmente, un annientamento.

Questo è il paese che Marzieh Hamidi ha lasciato. Il paese in cui ha lasciato le ragazze che conosceva, gli amici. E questo è ciò che resta delle libertà occidentali. “Vi invito tutti a unirvi a me sull’hashtag #LetUsExist” ha scritto Hamidi. “Lottiamo insieme contro l’apartheid di genere”. Ha ricevuto tremila minacce di morte, di finire violentata, il che le ha procurato una vita sotto scorta. È in Francia che questa rifugiata politica è stata posta sotto protezione della polizia e costretta a lasciare la casa, di nuovo. Dove sono le associazioni femministe? Dov’è la sinistra che scende in piazza contro Israele? Dove le figure politiche del #MeToo? Hanno incontrato Marzieh Hamidi? Hanno scandito il suo nome? Alcune, forse.

Già nel 1996, sull’Express, Elisabeth Schemla scriveva un articolo dal titolo “Le femministe e il Coranistan”: “Le femministe tacciono alla radio, mentre Radio Kabul trasmette i precetti talebani. La lotta per la parità le monopolizza completamente. È lontano, così lontano, il Coranistan! Dimenticate le ferme risoluzioni delle conferenze del Cairo e Pechino, che rifiutavano di fare della ‘differenza culturale’ un alibi per la schiavitù?”. Era l’inizio del primo regno talebano. Poi, nel 2001, l’inizio dell’interregno occidentale. E ora siamo ancora lì, al silenzio occidentale e al Coranistan.

“Le reazioni tra noi (gli avanzati, i civilizzati, gli umanisti, le femministe, gli eredi viziati dell’Illuminismo) sono state, per così dire, invisibili” scrive questa settimana Peggy Sastre sul Point. “A Parigi, lo stesso fine settimana, è vero, avevamo altre preoccupazioni. Una parte della sinistra ha manifestato per non far passare il fascismo, ‘da Parigi a Gaza’”.

Bahar Jalali, fondatrice del “primo programma di studi di genere in Afghanistan”, non ha più una cattedra. E per la verità non c’è più neanche una “Università americana” a Kabul. Però Jalali ora si occupa di Palestina. Anche lì c’è molto da fare per l’uguaglianza di gender… C’è tanto fascismo anche lì. Ora è tutto dimenticato. Il primo ministro neozelandese Jacinda Ardern “implorò”, letteralmente, i talebani di “riconoscere i diritti umani”. L’ex ministro greco dell’Economia, Yanis Varoufakis, antimperialista che neanche negli anni Settanta, scrisse: “Tenete duro sorelle!”. “Il governo afghano dovrebbe impegnarsi con i talebani per raggiungere un accordo inclusivo”, affermò l’intrepido capo della politica estera della Ue Joseph Borrell, mentre i fondamentalisti dilagavano nel paese imponendo la loro “inclusione”. Proprio quel giorno l’Associated Press raccontava quello che attendeva milioni di donne afghane: “In un parco di Kabul, trasformato in un rifugio per sfollati, le ragazze che tornavano a casa in motorino sono state fermate e frustate perché indossavano dei sandali”.

“Dialogo serrato con i talebani”, pietiva Giuseppe Conte. Fino al Dipartimento di stato che chiese ufficialmente ai talebani di formare un “governo inclusivo”. Il ministro degli Esteri inglese suggerì di aumentare gli aiuti all’Afghanistan. E l’Unicef si disse “abbastanza ottimista” che i talebani avrebbero rispettato il diritto all’istruzione delle donne. “Se imporrete la sharia non vi daremo più un soldo”, disse il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas. “Dopo che anche la Repubblica federale ha deciso di ritirare i suoi soldati dall’Afghanistan, il ministro degli Esteri tedesco è entrato in scena e ha impartito ai talebani il seguente ordine del giorno: ‘I talebani devono riconoscere che non ci sarà un ‘ritorno al 2001’”, commentava non poco sarcastico Henryk Broder, il columnist della Welt. “La fiduciosa società civile afghana ha atteso con impazienza questo consiglio”. L’Onu ha appena accettato che non ci fossero donne all’incontro con i talebani nella capitale del Qatar, Doha. Il capo politico delle Nazioni Unite, Rosemary DiCarlo, ha visitato l’Afghanistan a maggio e ha invitato il “ministro degli Esteri”, Amir Khan Muttaqi, a partecipare alle assise dell’Onu. Il vicesegretario generale delle Nazioni Unite, Amina Mohammed, parlando alla School of Public and International Affairs di Princeton (precedentemente nota come Woodrow Wilson School, che faceva poco woke), ha chiesto il riconoscimento dei talebani da parte della comunità internazionale. Qual è la lunghezza del cucchiaio consigliato dall’Onu per cenare col diavolo?

Intanto un gruppo di barbuti si ritrova in una delle poche università del paese rimaste per la prima conferenza internazionale dei talebani sui cambiamenti climatici (vietata alle donne e agli infedeli) sotto il mullah Abdul Kabir. “Proprio come hanno invaso il nostro paese, hanno invaso il nostro clima”, ha detto Lutfullah Khairkhwa, vice ministro dell’Istruzione dei talebani, laureato in Corano. Khairkhwa ha quindi chiesto ai paesi ricchi di dare ai talebani denaro per tutti i cambiamenti climatici che avevano inflitto loro.

Prima della presa del potere da parte dei talebani, era stato promesso quasi un miliardo di dollari in vari progetti green. Il regime islamico vorrebbe comprensibilmente mettere le mani su parte di quei soldi. E un rapporto del coordinatore speciale delle Nazioni Unite per l’Afghanistan, Feridun Sinirlioglu, ha chiesto impegno affinché si “riconoscano le realtà politiche in Afghanistan oggi”.

“Crediamo davvero che i talebani abbracceranno la scrittura inclusiva e convocheranno un Gay Pride a Kabul?”, disse in quell’estate del 2021 al settimanale francese Point il politico socialista e fondatore di Printemps Républicain Amine El Khatmi, quando gli occidentali se ne andarono con la coda fra le gambe.

Più di uno ci credeva davvero. Ci saranno ministri Lgbtqi+ in Afghanistan? Il governo talebano utilizzerà la discriminazione positiva per promuovere la diversità? Permetterà i bikini nelle piscine e i pantaloni corti nelle madrasse? Oserà approvare il matrimonio (in regime di poligamia) per tutti? Ai ladri verrà offerta la possibilità di indossare un braccialetto elettronico in alternativa al taglio delle mani?

“L’ottimismo regnava il 29 febbraio 2020” ricorda il Parisien. “Sul sito dell’Onu, il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, sogna ‘un processo inclusivo con – dice – una partecipazione significativa delle donne’. ‘Non è la stessa generazione’, dice il ministro dell’Europa e degli Affari esteri, Jean-Yves Le Drian. ‘Dicono di voler acquisire rispettabilità e onorabilità’, osserva. La prova migliore sarebbe garantire un governo inclusivo. L’espressione ritorna tra gli altri rappresentanti alleati, in particolare britannici. L’ex rappresentante speciale delle Nazioni Unite, Lakhdar Brahimi, due settimane dopo va oltre. ‘Se i talebani si prendono il tempo per condividere il potere e se il resto del mondo li aiuta un po’, il paese potrà farcela’, anticipa sul Monde. Tre anni dopo queste donne sono ridotte al silenzio e murate vive. E cresce la cecità della comunità internazionale”.

Al tempo, la filosofa cattolica Chantal Delsol scrisse sul Figaro: “Entriamo in un mondo di relativismo e barbarie. Come difendere le donne afghane quando qui giustifichiamo il burqa? E’ crollata l’idea di verità occidentale nata con i greci e il giudeo-cristianesimo. Entriamo in un mondo fluttuante, le cui piene conseguenze non abbiamo ancora colto. Questo passaggio ci affascina e ci preoccupa. E abbiamo ragione a essere preoccupati. La campana che suona a morto per il diritto di intervento potrebbe essere la fine dei diritti umani. Non sono sicura che vogliamo questo mondo”.

Un mondo in cui Amnesty International ha appena chiesto ai talebani di porre fine alla loro “persecuzione basata sul genere”. Ma Amnesty ha definito questa persecuzione come rivolta a coloro che “si identificano come ragazze”. Stile Judith Butler, la madrina del gender che insegna a Berkeley e che ha criticato la liberazione delle donne afghane come espressione dell’imperialismo occidentale.

Nel 2020, il New York Times ha pubblicato un articolo dello spietato vice talebano e terrorista Sirajuddin Haqqani, intitolato “Cosa vogliamo noi, i talebani”. Nell’articolo, Haqqani prometteva che le donne avrebbero avuto uguali diritti, una volta che l’Afghanistan fosse stato “liberato dal dominio e dall’interferenza straniera”. Allora i talebani avrebbero potuto creare “un sistema islamico”, in cui “i diritti delle donne garantiti dall’Islam, dal diritto all’istruzione al diritto al lavoro” sarebbero stati “protetti”.

Marzieh Hamidi intanto apre il cellulare per controllare WhatsApp: 4.324 messaggi, di cui tremila in due giorni, e 500 telefonate in una notte. Non solo dal Pakistan e dall’Iran, ma anche da Belgio, Germania, Svizzera, Serbia, Sud America e Francia. Invocano l’omicidio, lo stupro, la lapidazione… tutta la gamma della barbarie telegrafica. Nessuna grande associazione femminista ha ripreso la sua drammatica storia né organizzato una manifestazione per difenderla. “Sono stata chiamata schiava dell’occidente”, confessa al Point, che la chiama “eroina abbandonata”. “Ma avverto chi mi definisce islamofobo: aprite gli occhi! Che si trasferiscano a Kabul! Non hanno mai sperimentato quello che ho vissuto io o quello che attraversano le donne iraniane! Si stabiliscano in Afghanistan, non resisteranno due giorni”.

Ha resistito poco il video di Vice News in cui il combattente talebano scoppia a ridere quando gli viene chiesto se le donne potranno entrare in politica e votare. “Alle persone sarà permesso di votare le donne?”, chiede loro la giornalista occidentale. I talebani scoppiano a ridere e uno di loro, il comandante Khatab, ordina di smettere di filmare.

La sharia “inclusiva”, l’occidente woke l’ha sognata e i talebani, ridendo, la realizzeranno. A Kabul e un po’ anche in Europa.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.

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