L’Ambrosiana mette in mostra il manoscritto di Beccaria. Molto attuale

“Dei delitti e delle pene” è probabilmente l’opera più importante scritta dal giurista e filosofo milanese che ci invita a riflettere sulla situazione delle carceri in Italia. Utile da rileggere oggi

La mostra più azzeccata (e amara) in circolazione è dedicata a un volume incubato in quell’illuminato cenacolo milanese che fu l’Accademia dei Pugni di Pietro e Alessandro Verri e venuto alla luce duecentosessanta anni fa. È il trattato “Dei delitti e delle pene”, scritto dal fine giurista e colto filosofo Cesare Beccaria (1738-1794), universalmente riconosciuto come uno dei testi più all’avanguardia del pensiero giuridico. Da Milano, il Beccaria analizzava e criticava punto per punto il sistema giudiziario e penale del suo tempo, additando come brutali e barbari i metodi in voga (tortura, esecuzioni pubbliche, uso spropositato della pena di morte). Logica e coerente la sua ricetta: le pene devono essere proporzionate ai reati, la deterrenza non si consegue con la crudeltà ma con la certa applicazione della pena. Sì alla prevenzione, no alla vendetta: una rivoluzione. Mezza Europa l’abbracciò, persino Caterina la Grande attuò significative riforme in Russia dopo aver letto il testo di Beccaria (subito tradotto, peraltro, in molte lingue, incluso arabo e giapponese).

La Veneranda Biblioteca Ambrosiana, da giovedì e fino al 17 dicembre, ne celebra la storia e il valore nella mostra, curata da monsignor Marco Navoni e monsignor Francesco Braschi, “Il trattato ‘Dei delitti e delle pene’ di Cesare Beccaria – da Milano, all’Europa al mondo” dove è esposto il manoscritto originale del volume, l’editio princeps italiana, insieme a diverse prime edizioni in varie lingue, con cimeli diversi, tra cui il ritratto di Cesare Beccaria realizzato da Eliseo Sala. L’Ambrosiana possiede il manoscritto e i preziosi volumi per una serie di fortunati eventi che riassumiamo a beneficio degli appassionati del genere: Beccaria diede alle stampe il suo capolavoro poco prima di morire e la sua biblioteca, inclusi i manoscritti, finirono nelle mani del figlio Giulio (e non dell’altra figlia Giulia, la mamma del Manzoni) che li lasciò a sua volta in eredità alla consorte, la marchesa Antonietta Curioni de’ Civati. È lei che sul testamento impegnò le figlie, avute dal secondo matrimonio con Cesare Cantù, a donare il trattato a “qualche pubblico istituto a perpetua memoria dell’illustre filosofo, come per esempio nella Biblioteca Ambrosiana, già ricca di monumenti e di altre illustrazioni patrie”. Non filò tutto liscio: uno dei generi, il commendatore milanese Angelo Villa Pernice, se ne appropriò gelosamente e solo nel 1910 la di lui moglie, donna Rachele Villa Pernice, riuscì a realizzare il desiderio della madre marchesa consegnando il fondo di manoscritti e di stampati appartenuti a Cesare Beccaria nelle salde mani di Mons. Achille Ratti, a quel tempo prefetto dell’Ambrosiana e futuro Papa Pio XI.

Questa mostra è tutto fuorché roba da bibliofili e alberi genealogici: mentre sotto teca si legge il nitido autografo del Beccaria, è impossibile non pensare alle opache vicende dell’altro Beccaria, l’Ipm, dove solo due settimane fa ha avuto luogo una maxi-rivolta, con successive evasioni e rocamboleschi ritrovamenti. Non era al Beccaria ma a San Vittore perché di anni ne aveva 18, l’egiziano Youssef Barsom, detenuto con fragilità mentali, morto carbonizzato una settimana fa in un incendio la cui dinamica è ancora da accertare, in una casa circondariale che registra 1007 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 450. In una città che ha un rapporto ondivago con il diritto (e con il garantismo procedurale, Mani pulite è una ferita non ancora risanata) passata dalla stagione degli editti emessi da Palazzo all’indegna applicazione della pena (seppur con lodevoli eccezioni come il carcere di Bollate), il tutto nell’indifferenza o quasi della politica locale, onore all’Ambrosiana, che ci invita a togliere la polvere da uno dei suoi volumi più socialmente rilevanti.

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