La guerra dei Murdoch nel tempio del divorzio

A Reno, Nevada, l’ultimo capitolo della saga. Il Patriarca vuole cambiare le regole di successione. E non vuole giornalisti tra i piedi

Non si sa davvero chi glielo faccia fare, ma probabilmente è anche quello che lo tiene in vita. A novantatré anni Rupert Murdoch non si stanca di sposarsi né di mettere i figli uno contro l’altro né di fare progetti per il futuro, che possibilmente gli alienino la già scarsa simpatia dei parenti anche post mortem.

Ora è nel Nevada dove cercherà di cambiare il “trust” cioè l’impiantone legale che aveva messo su decenni fa per garantire stabilità alla successione (o meglio “Succession”) della casata. In questa nuova stagione del drammone vero che scorre parallelo a quello sceneggiato per la tv Hbo, storia di ricchi disfunzionali che si odiano più e peggio dei poveri, il vecchio patriarca che ha ispirato la serie cercherà di favorire il figlio più destrone, Lachlan, che attualmente è presidente di News Corp (che include il Wall Street Journal, il New York Post, il Times di Londra) e presidente esecutivo e Ceo di Fox Corporation (soprattutto la televisione Fox News.

E favorirlo contro gli altri e soprattutto contro la vittima sacrificale che è invece James, il Pier Silvio dei Murdoch, che cerca di trasformare l’impero ormai molto terrapiattista di Fox News in qualcosa di più civile. Si sa che James negli ultimi anni è stato sempre più a disagio mentre Fox diventava il braccio televisivo della scalata trumpiana al potere. James, che ha lasciato il gruppo nel 2020 dopo “disaccordi” riguardo al contenuto editoriale, ha avuto ospite il presidente Joe Biden a casa sua per un evento di raccolta fondi nel 2022 e ha sostenuto Kamala Harris all’inizio di questo mese. Il fratello più giovane non fa mistero di considerare i talk show di Fox in prima serata come velenosa spazzatura e ha lamentato come la disinformazione della rete distorca il dibattito pubblico. Avrebbe anche dei piani segreti per riportare Fox verso qualcosa di meno fantascientifico e trumpiano.

Però certo bisognerà capire se funziona: insomma, siamo nel caso Bianca Berlinguer su Rete4, e siamo anche nel secondo episodio della quarta stagione di “Succession” quando Logan Roy, l’omologo fittizio di Rupert Murdoch, impersonato dall’attore scespiriano Bryan Cox, sale su uno scatolone della carta da stampante e fa ai suoi un discorso brutale noto come il “box speech”, che in italiano potrebbe essere tradotto col “discorso del predellino”, e dice che altro che moderati, altro che vendere, devono diventare ancora più cattivi e trumpiani e “pirati”.



Un’ora di magnifica surrealtà televisiva, quella puntata, forse più surreale dell’ora (ma percepita dieci) in cui a “È sempre Cartabianca” Berlinguer attendeva che Maria Rosaria Boccia decidesse di andare in onda, e nel frattempo tutti noi con birra Peroni gigante e rutto libero eravamo lì che attendevamo l’intervista che mai ebbe luogo e invece ci siamo sorbiti quell’ora (dieci percepite) in cui la povera BB dialogava a braccio con Mauro Corona e soprattutto con l’influencer dei cantuccini Nonna Silvi.



Ma tornando a noi, la nuova puntata della vera saga della vera famiglia Murdoch è partita a luglio quando il vero New York Times ha raccontato del tentativo del patriarca di cambiare i vecchi accordi statutari che regolano la successione. Secondo quei patti stabiliti 30 anni fa, tutti i quattro figli (oltre ai succitati due ci sono Elisabeth, che è un po’ Shiv, e Prudence, che non è nessuno), avranno uguali diritti di voto al momento della dipartita del padre. Quindi l’odiato Lachlan potrebbe essere sconfitto da una votazione degli altri tre e questo potrebbe portare a sconquassi o virate a sinistra, che il padre vuole evitare.

Tutta la famiglia è dunque a Reno, Nevada, da lunedì scorso, e ci rimarrà pare per un’altra settimana ad aspettare la sentenza, col codazzo che ci si immagina di avvocati, consiglieri, mariti e mogli frustrate, aerei privati, forse di uguale cattiveria ma battute meno fulminanti di quelle Hbo (ricordiamo che ogni puntata di “Succession” era sottoposta a una media di settanta, dico settanta, revisioni). Il tribunale potrebbe emendare il trust solo se Murdoch senior dimostrerà di essere in buona fede e di agire per il solo beneficio dei suoi eredi. A decidere sarà il giudice Edward Gorman Jr.. È un ex avvocato, adora le passeggiate all’aria aperta ed è membro dei Lions. Suona per diletto nella Reno Jazz Orchestra. Non si sa se sia parente della più celebre Amanda Gorman, poetessa di Stato, quella famosa per aver declamato i suoi versi in cappottino giallo Prada all’insediamento di Biden nel 2021 e aver declamato altri versi non in Prada alla convention democratica di Chicago di agosto.

Invece l’avvocato di Murdoch senior è Adam Streisand (cugino di Barbra), famoso per liti di famiglie liquide e litigiosissime con parenti serpenti, Michael Jackson e Britney Spears in testa. Ma il processone avrà ricadute anche locali, perché per forza ci saranno avvocati del Nevada, dunque un effetto pil notevole. Ripercussioni invece fastidiose per i giornalisti che sono molto infelici perché Gorman ha bocciato le molte richieste di accreditamento della carta stampata e delle televisioni, il ché è abbastanza ironico quando “alla sbarra” è uno dei più grandi imperi mediatici del mondo.

Ma che una causa che deciderà del grande impero delle telecamere vada in scena senza telecamere è proprio uno dei motivi per cui Murdoch ha scelto questo posto, terza città di uno stato in gran parte composto da deserto. Murdoch è nato a Melbourne, e Lachlan è residente a Sydney. Forse la cittadina gli ricorda la patria natìa, ma in realtà la ragione è meno romantica, loro sono qui perché il Nevada tutela molto queste strutture finanziarie: “un trust come questo, anche quando ha in pancia aziende quotate in Borsa, è essenzialmente un accordo legale privato”, ha detto Gorman nell’ordinanza in cui nega l’accesso ai media.



Il Nevada poi è il paradiso di questi accordi: non ci fa pagare sopra tasse statali, lascia molta riservatezza, e permette la creazione di trust “dinastici” fino alla durata di 365 annui. Murdoch come molti ricconi americani aveva scelto questa struttura che offre diversi vantaggi, tra cui mantenere il controllo sulle decisioni aziendali anche dopo la sua morte, assicurando che le sue visioni e strategie siano rispettate. E poi evitare conflitti familiari anche in vista di prosapie dementi. E benefici fiscali. Il Nevada poi offre anche la possibilità di trust “flessibili” cioè appunto che si possono modificare nel tempo, ed ecco perché Reno. Ricordate? Anche Berlusconi ai tempi della discesa in campo prometteva di mettere tutto in un “trust”, anzi “blind trust”, dove il padrone non tocca palla. Però non se ne fece nulla, ma gli eredi oggi non litigano, una rarità.



I Murdoch sono tutti invece lì, nella “Biggest Little City in the World”, la grande piccola città come è soprannominata in America. Secondo il “Reno Gazette Journal” davanti al tribunale nei giorni scorsi sono sfilati i suv americani neri, uno per ogni rampollo, mentre il patriarca col figlio prediletto Lachlan arriva su Audi bianche (anche qui, gran colpo di sceneggiatura). Gli autisti fumano, i cacciatori di autografi stazionano (un autografo di Rupert Murdoch è quotato qualche centinaio di dollari, una palla da baseball forse arriva a mille). I personaggi di contorno sono quelli migliori: in particolare la nuova moglie di Murdoch, Elena Zhukova, scienziata russa e soprattutto mamma della formidabile Dasha, la Jackie Kennedy dei nostri giorni; è stata prima la moglie di Abramovich e adesso come usava un tempo ha sposato un ricco greco delle navi, Niarchos.



Ma i media locali non sono particolarmente eccitati: Reno ha da sempre una tradizione di celebrità e soprattutto di divorzi, tra “spotlight” e ricerca di una impossibile riservatezza. “I’m going to Reno” in America vuol dire vado appunto a divorziare. Qualcuno che si separa è “Reno-vated.” Insomma, vita nuova, separazione facile, anche il tribunale dove sfila la famiglia Murdoch è simbolo stesso di divorzio. La Washoe County Courthouse, casamento in stile classico con colonne e cupoletta, è detta anche “House of Divide” o “The Separator”, è un classico fondale dei film americani, coi divorziati che nei decenni si fotografavano baciando le colonne. Il filone divorzista nasce con la nascita stessa di Hollywood: “ The Primitive Lover” (1922), “Forbidden Waters” (1926), e “A Reno Divorce” (1927), e poi tre film tutti nel 1931, “Le mogli felici di Reno”, “The Road to Reno” e “Six weeks in Reno”, perché appunto in quell’anno venne liberalizzato tantissimo il divorzio facile nella cittadina (e allo stesso tempo aperto il casinò): vi furono ben 4.800 divorzi quell’anno, in quel tribunale, e per divorziare bastava prendere la residenza lì e starci sei settimane, approfittando del clima mite, dell’atmosfera da vecchio west, della possibilità di incontrare altri divorziati.

Tutto questo portò ricchezza, locali, lavoro. Aprirono il famoso casinò, ristoranti come The Willows, il Tavern, il Poodle Dog, il Dog House, la Town House, il Country Club, e la Trocadero Room; ma per i signori e soprattutto le signore che cercavano vita nuova c’erano attrazioni anche turistiche come Lake Tahoe, dove si può nuotare d’estate e sciare d’inverno. Dalla California, epicentro di ricconi, ci si arriva velocemente, anche in treno – del resto la fortuna di Reno nacque con la ferrovia Central Pacific Railroad, che portava alle miniere d’oro. Ma poi l’oro divennero i divorzi: negli anni Trenta si stima che l’indotto delle coppie in crisi portasse 3 milioni di dollari l’anno, pari a 60 milioni di oggi.

Bastava che uno si piazzasse qui, senza bisogno di consultare l’altro coniuge, ed era fatta. Si stava in pace, via da occhi indiscreti, e nel frattempo si andava al ristorante e si giocava al casinò. C’erano agenzie che fornivano meccanici, giardinieri, infermiere e interpreti per gli stranieri che venivano a separarsi. O anche, per i non o poco ricchi, c’erano molti posti di lavoro. Le donne che volevano disfarsi di mariti impossibili potevano lasciarli e trovare un impiego senza dover dipendere dalla paghetta del consorte, tutto insieme, una sublime novità del Dopoguerra. Cartelli “benvenute divorziate” campeggiavano sugli alberghi. C’era anche una fiorente comunità gay, maschile e femminile, per chi magari si era buttato in un matrimonio di facciata risultato insopportabile e aveva bisogno di rifarsi.



Ma erano soprattutto le celebrità a rendere famosa Reno: scrittori come Saul Bellow, André Breton, Arthur Miller (che qui divorziò per sposare Marilyn), John Steinbeck, tutti vennero a separarsi, in quella che era una specie di Palm Springs con Annamaria Bernardini de Pace sindaco. E poi i ricchi, i Dupont, i Rockefeller, e soprattutto una genia di “divorziate” miliardarie: una ventunenne Gloria Vanderbilt, che nel 1945 fa la “reno-vation” per divorziare da Pasquale detto Pat Di Cicco, un improvvisato agente di attori ma soprattutto uno degli uomini del clan del boss Lucky Luciano. E poi Doris Duke, la donna più ricca del suo tempo, che fece la “cura Reno” due volte, una per divorziare dal celebre playboy Porfirio Rubirosa. Il quale per un po’ fu sposato a Barbara Hutton, altra ereditiera colossale, conosciuta come la “Poor Little Rich Girl”, la miliardaria in pena che anche lei divorziò da un altro marito a Reno nel 1935, un principe georgiano, e già che c’era si risposò seduta stante con un conte danese (in totale accumulò sette matrimoni e sette divorzi).

“Renovated” anche la cattolicissima Clare Booth Luce, moglie del padrone delle riviste Time e Life, famosa perché quando era ambasciatrice in Italia negli anni Cinquanta dava il tormento a papa Pio XII, di suo non proprio un comunistone, sulla gravità che la politica italiana aprisse al centrosinistra. All’ennesimo lamento di quell’affronto alla Chiesa, di quella bestemmia contro Cristo, il romano pontefice a un certo punto aveva sbottato: “Signora, non deve convertirmi, sono cattolico anch’io”.



Dagli anni Cinquanta poi, grazie alle leggi che resero il divorzio più facile in tutti gli Stati Uniti, il fascino di Reno come capitale delle separazioni sfiorì. L’apice e la fine del “renismo” arrivano nel ‘61 con il film “Gli spostati” (“The Misfits”) scritto da Miller e diretto da John Huston, con un cast pazzesco, Montgomery Clift, Clark Gable, Marilyn, che va a separarsi proprio nel tribunale dove oggi sfila la famiglia più litigiosa del mondo. Il film, va detto, portò malissimo a tutti. Clark Gable morì di infarto dieci giorni dopo la fine delle riprese, Marilyn l’anno seguente. I suoi diritti d’autore sono stati curati per un po’ dall’attuale avvocato di Murdoch in questo processo.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).

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